Opinioni

Giudizio politico e di costituzionalità. Italicum, lo «scandalo» di rispettare le regole

Paolo Borgna martedì 5 maggio 2015
In una bella intervista a Lucia Annunziata di domenica scorsa, Enrico Letta ha stupito la giornalista perché – dopo aver motivato con forza la sua radicale contrarietà all’Italicum – ha affermato che lui non si sarebbe scandalizzato se il presidente Mattarella avesse deciso di firmare la riforma. L’ex premier ha spiegato, con esemplare chiarezza, che un conto sono la inopportunità politica di una legge e il metodo con cui viene approvata (cioè a colpi di maggioranza e, per giunta, in un Parlamento in cui questa maggioranza esiste soltanto grazie allo spropositato premio assicurato dalla legge elettorale del 2005 cancellata dalla Corte costituzionale); altra questione è la sua incostituzionalità.  L’intervistatrice non si è data pace di questo giudizio, pur così equilibrato e motivato, ed è arrivata a definire poco coraggiosa la posizione di Letta: il segno della sua debolezza starebbe nel portare avanti battaglie ritenute giuste, ma poi non ingaggiate con sufficiente determinatezza; e sarebbe il sintomo di una vocazione alla sconfitta politica.  Per quel che vale, nelle oneste parole di Enrico Letta, pare di vedere un segno di buona politica e di giusta consapevolezza istituzionale. L’attitudine propria di chi, a costo di una qualche immediata impopolarità, ha il coraggio di dire ciò che davvero pensa; confidando che sarà il tempo a dargli ragione. Questo coraggio porta a contrastare un’opinione che da vent’anni è stata diffusa sino a radicarsi come luogo comune: l’idea che ogni legge ritenuta – a torto o a ragione – ingiusta, malfatta, sbagliata debba essere, per ciò stesso, «incostituzionale». È un’equazione errata. Non tutte le leggi ingiuste, sbagliate, inopportune, violano la Costituzione. E dunque non si può pretendere che la Corte costituzionale cancelli tutte le leggi ingiuste né che il Presidente della Repubblica neghi la sua firma. Se così fosse, l’autonomia della politica subirebbe un vulnus grave. Le istituzioni di garanzia invaderebbero sistematicamente il campo della politica. E nel lungo termine questa invasione – che nell’immediato potrebbe anche esser salutata come benefica – avrebbe, nel lungo termine, effetti antidemocratici.  Un esempio lampante: questo giornale ha per anni denunciato l’errore costituito dall’introduzione (nel 2008) del reato di 'clandestinità': una norma – scrivevamo – «iniqua oltre che inutile», fortunatamente abrogata dalla legge n. 67 del 2014. Ma la Corte costituzionale – chiamata a pronunciarsi sulla illegittimità del reato – rigettò la questione, con argomentazioni inoppugnabili che, in ultima analisi, affermavano proprio ciò che Letta ricordava: l’opinabilità di una legge non la rende necessariamente incostituzionale.  Molte volte, in questi anni, abbiamo letto appelli al Presidente della Repubblica a «non firmare» leggi ritenute scandalose; o alla Corte costituzionale affinché le cancellasse. Questi appelli riflettevano, a livello politico, una tendenza, oggi assai diffusa tra i giuristi, a fare dei giudici (costituzionali, ma anche ordinari) non solo i garanti, ma anche i 'creatori' del diritto, attingendo a una foresta di fonti che vede ormai, accanto alle leggi nazionali e alla nostra Costituzione, anche le Convenzioni internazionali e gli orientamenti giurisprudenziali delle Corti europee. Si tratta di questione assai delicata, su cui meriterà ritornare. Ma una cosa va detta: anche la più ampia 'politica dei diritti' non può calpestare la regola basilare secondo cui, in una normale democrazia, spettano alle istituzioni politiche, elette e politicamente responsabili, le diverse scelte che regolino e disciplinino i princìpi costituzionali, declinandoli in norme giuridiche.  Con ciò non intendiamo dire d’essere certi che la riforma elettorale di prossima approvazione sia sicuramente in linea con la Costituzione. Questo giudizio spetterà al Presidente della Repubblica al momento della promulgazione e poi (eventualmente) alla Corte. Queste sono le regole. Ma rispettare le regole significa anche non confondere il momento e i criteri del giudizio politico – quale esso sia – con il vaglio di costituzionalità.