Opinioni

Tutele da rivedere. Il vero scandalo degli invalidi: l’assegno di 279 euro

Francesco Riccardi mercoledì 25 gennaio 2017

Forse il tempo dei bonus è ormai passato definitivamente e il vento che spira da Bruxelles cancella le speranze di nuovi interventi sociali, vista la necessità di una manovra aggiuntiva per correggere il deficit. Ma quel che stupisce è che fra i tanti interventi compiuti, finanziati con decine di miliardi o anche solo progettati negli ultimi anni, non si sia mai neppure presa in considerazione l’idea di impegnare risorse per aumentare le tutele all’invalidità. Come se la (composita) categoria di persone che ne usufruisce non fosse in una condizione di 'bisogno' assai più urgente rispetto ad altre fasce sociali. E come se per costoro, lo vedremo, non si ponesse una questione di equità sociale.

CHE COSA È PREVISTO Lo scorso anno i trattamenti di invalidità sociale erogati dall’Inps sono stati poco meno di tre milioni, 2.980.799 per la precisione, per una spesa di 18 miliardi di euro. Si tratta di diverse tipologie di sostegno, variabili in base alla gravità della disabilità: l’'assegno di invalidità' (previsto per le invalidità dal 74% al 99%), la 'pensione di inabilità civile' (per le invalidità totali, pari al 100%) e la cosiddetta 'indennità di frequenza' a cui hanno diritto i minori disabili. Per tutte queste categorie l’importo dell’erogazione è pari a 279,47 euro mensili, con un limite di reddito personale fissato a 4.800 euro annui oltre il quale si perde il diritto all’assegno, elevato a 16.532 euro annui solo nel caso della 'pensione di inabilità civile'. Per i ciechi e i sordomuti sono previsti trattamenti particolari che comunque variano dai 206,59 ai 302,23 euro mensili (con limite di reddito a 16.532 euro annui). Per i casi più gravi – laddove l’invalidità al 100% comporti anche l’impossibilità di muoversi in maniera autonoma o l’impossibilità di compiere gli atti quotidiani della vita, con la conseguente necessità di un’assistenza continua – lo Stato eroga pure l’'indennità di accompagnamento' pari a 512,34 euro al mese per dodici mensilità (elevata a 899,38 nel caso dei ciechi assoluti). Per completare il quadro, sono previste poi alcune agevolazioni fiscali e assistenziali su acquisto di protesi, ticket sanitari eccetera (una piccola giungla che andrebbe comunque razionalizzata).

È TANTO O È POCO? La previsione di un sostegno agli invalidi deriva da una precisa disposizione costituzionale. La nostra Carta, infatti, all’articolo 38 prevede che 'Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale'. E dunque gli assegni di invalidità devono rispondere a questa esigenza: assicurare quantomeno il mantenimento degli inabili. Ma se è così, 279,47 euro sono sufficienti? È 'già tanto' quel che si assicura ai disabili, come sostiene qualcuno, o si tratta di una cifra non congrua per poter vivere e di fatto non equa come trattamento assistenziale? Per non ragionare in astratto, meglio prendere alcune altre cifre a riferimento, come quelle di altri trattamenti previdenziali e assistenziali di base. Ad esempio, l’'assegno sociale' che viene erogato dopo l’età pensionabile a chi ha redditi nulli o minimi e che ammonta a 448 euro mensili. Oppure la 'pensione minima', cioè l’integrazione del trattamento che viene riconosciuta al pensionato il cui reddito da pensione, sulla base del calcolo dei contributi versati, risulti inferiore ad un livello stabilito per legge, considerato il «minimo vitale». Quest’anno l’importo resta fissato a 501,89 euro. E qui emerge già una prima palese iniquità: se per un pensionato il «minimo vitale» è fissato a 501 euro, perché a un invalido si eroga solo poco più della metà (279 euro) di quel minimo?

PIÙ POVERO DEI POVERI ASSOLUTI Ma è soprattutto un altro parametro a rendere evidente l’incongruità degli assegni per invalidi ed è il calcolo della soglia di povertà assoluta. Si tratta del valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definito in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza, dato che il costo della vita è assai variabile nel nostro Paese, a seconda appunto che si viva al Nord o al Sud, in un paesino o in una grande città. Se prendiamo a riferimento un singolo, dai 18 ai 59 anni, questa soglia di povertà assoluta varia da un minimo di 552 euro al mese per chi abita in un piccolo comune nel Mezzogiorno a un massimo di 819 euro mensili per coloro che risiedono in una città metropolitana del Settentrione. Valori, come si vede, che sono dal doppio a quasi il triplo della pensione di invalidità che da sola, dunque, non permette neppure di avvicinarsi alla soglia della povertà assoluta.

L’ACCOMPAGNAMENTO NON È REDDITO Se i percettori di pensione di invalidità non sono ancora tutti scomparsi per inedia, ciò si deve a due fattori principalmente. Il primo, fondamentale, è l’aiuto della famiglia che si fa carico del disabile o invalido provvedendo a sostentamento e soprattutto cura. Il secondo è rappresentato dalla 'indennità di accompagnamento' di cui molti invalidi, in particolare quelli più gravi, 'godono'. Sono, come ricordavamo prima, altri 512 euro esentasse, che portano il totale a 791 euro. Ma – notato come in ogni caso si rimanga sotto la soglia di povertà quantomeno nelle città del Nord – questa cifra complessiva incorpora in sé la necessità di retribuire un accompagnatore – l’indennità viene concessa proprio perché il disabile non è in grado di provvedere a se stesso in maniera autonoma – e, ai prezzi correnti, sono sufficienti forse per retribuire un badante, ma solo a mezza giornata. Più spesso servono a compensare relativamente la perdita di reddito di un familiare che non lavora e si prende cura di chi è invalido (con tutto ciò che questo comporta, oltre che sul piano personale, in termini di maggiore fragilità economica del nucleo familiare e ridotte prospettive previdenziali). In sostanza, quei 512 euro non rappresentano un reddito spendibile ma il (mezzo) finanziamento di un servizio assolutamente necessario.

UNA BATTAGLIA (IM)POPOLARE Le cifre insomma parlano chiaro: la pensione di invalidità è insufficiente per garantire il minimo vitale ed è notevolmente più bassa di tutti gli altri trattamenti previdenziali e assistenziali. Perché dunque nessuno – né il governo né le opposizioni né le parti sociali – si è mai proposto di porre rimedio con aumenti adeguati? Le risposte sono essenzialmente tre, tra loro connesse: manca una rappresentanza forte degli invalidi; il loro peso elettorale è limitato e l’argomento è (ingiustamente) impopolare. Nonostante vi siano associazioni di invalidi, alcune anche con centinaia di migliaia di iscritti, infatti, la rappresentanza in questo settore sociale è molto frastagliata e manca di coordinamento. A differenza, ad esempio, di quanto accade con i pensionati, i cui interessi sono talmente ben rappresentati e imposti all’attenzione del mondo politico che Cgil, Cisl e Uil sono appena riuscite a ottenere una quattordicesima mensilità anche per chi riceve un assegno dai 750 ai 1.000 euro mensili, cioè il quadruplo di una pensione di invalidità (e a prescindere dal reddito familiare). Sul piano elettorale, poi, tre milioni di percettori di rendita di invalidità non hanno un gran peso, soprattutto se, come detto, non sono così coordinati da svolgere azioni di lobby. Infine, il motivo principale: la cattiva nomea che ha reso questa categoria i 'paria', gli 'intoccabili' dell’intervento politico. È vero: esiste il problema dei 'falsi invalidi', truffatori che fingono una disabilità della quale non soffrono e soprattutto gruppi di persone a cui una certa politica clientelare – non sapendo dare risposte reali in termini di lavoro e opportunità di sviluppo del territorio – ha 'concesso' rendite di invalidità come una sorta di reddito minimo ante litteram. Lo si comprende bene osservando i diversi indici di invalidità rispetto alla popolazione tra Nord (37,2 ogni 1.000 abitanti) e Sud (64,1 ogni 1.000 abitanti). Tutto questo, però, non giustifica il disinteresse politico per un gruppo sociale tra i più fragili e non può far velo a una verità lampante: l’assegno di invalidità così non risponde al dettato costituzionale e non permette a chi è inabile una vita minimamente dignitosa.