Il postulatore. Livatino, non solo storia di mafie assassine ma di vera fede
Quella di Rosario Angelo Livatino è una storia di mafie assassine. Adesso è anche ufficialmente storia di fede. Col decreto che dispone la beatificazione del magistrato siciliano, papa Francesco scrive una pagina nuova nel racconto della vita del giudice agrigentino, che il 21 settembre 1990, ai sicari mandati dalle 'stidde' – letteralmente, i rami staccatisi dall’albero di 'cosa nostra' – chiedeva che cosa avesse fatto loro: 'picciotti', le ultime parole. La risposta gliela diedero con due colpi di pistola alla testa, mortali, ma non così definitivi da farcelo dimenticare.
Anzi. Chi uccise Livatino, come chi diede l’ordine di toglierlo di mezzo, voleva sbarazzarsi di un magistrato ritenuto di intralcio al pari di altri, poiché considerato incorruttibile e ineccepibile nel suo lavoro, ma ciò che animava le 'stidde', mandanti ed esecutori, era radicato pure nell’odio verso la sua fede, che lo aveva fatto etichettare dai suoi nemici «santocchio», perché pregava ogni mattina, prima di andare in ufficio e affidava al Signore i tanti morti ammazzati, che magari aveva già giudicato in Tribunale. Della vita di Livatino molto, quasi tutto, è noto. La causa di beatificazione ha consentito di far luce su altro, su questioni non tanto biografiche quanto sostanziali e di notevole incidenza da una parte sul rapporto tra fede e Chiesa e dall’altra sulla rete mafiosa delle corrotte organizzazioni criminali.
Come già per don Pino Puglisi – però stavolta si fa riferimento alla figura di un laico – il quesito posto è stato: gli assassini e i loro capi agirono per contrastare una giustizia intrisa di Vangelo? E se sì, lo fecero consapevolmente? Testimoni, atti, sentenze, voti positivi di teologi, cardinali e vescovi e da ultimo, a suggello, la firma di papa Francesco, sono inequivocabili: chi uccise, materialmente, Rosario Angelo Livatino, e chi aveva deciso che ciò avvenisse, lo fece animato da un chiaro, irrefrenabile odio per l’incorruttibilità della fede del giovane e operosissimo giudice. Essi consapevolmente odiarono quella 'differenza cristiana' che risplendeva nella figura del magistrato e si attualizzava nella sua professione.
Livatino non aveva dimestichezza con le telecamere: non aveva mai ricercato la notorietà. Non poteva, del resto, essere altrimenti, per uno che nei convegni andava ripetendo che «sarebbe sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali o che, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere e importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario». Non poteva essere diversamente per un giovane servitore dello Stato che prima d’ogni altra cosa era uomo di fede: «Il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».
Non svelava cedimenti, agli occhi increduli degli 'stiddari' delle sue terre, quel giovane tutto casa e chiesa che argomentava che «l’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella fedeltà ai princìpi, nella sua conoscenza tecnica, ma anche nella sua moralità, nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività». Questo era Rosario Angelo Livatino: un cristiano consapevole della difficoltà delle scelte, convinto che «lo scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare.
Ed è proprio in questo scegliere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio». Era tutto ciò, e molto altro. E continuerà a esserlo, consegnato all’eternità dalla sua testimonianza imperitura di giustizia e di fede pagata con il sangue a conferma della vita vissuta alla luce del Vangelo. Attimi di grandezza umana e spirituale, raggi di luce nel buio della disumanità. Certe cose possono farle solo i santi o gli eroi: Livatino era l’uno e l’altro.
Postulatore nella causa di beatificazione di Rosario Angelo Livatinoe arcivescovo di Catanzaro-Squillace