Opinioni

I dati europei. L'Italia ultima per matrimoni. Le scelte forti fanno più paura

Luciano Moia mercoledì 27 febbraio 2019

In molti Paesi europei il matrimonio continua a essere una scelta importante. In uno studio Eurostat che prende in esame il numero di matrimoni per mille abitanti in 30 nazioni si scopre che in Lituania (7,5) e in Romania (7,3) il desiderio dei giovani di costruire una vita insieme rimane elevato. Su livelli appena inferiori Cipro e Lettonia (6,8). Poi, dopo l’eccezione di Malta (6,3), tanti Paesi del Nord e dell’Est europeo in cui le percentuali di giovani che scelgono di sposarsi rimangono rilevanti. Nei Paesi mediterranei di tradizione cattolica i numeri diventano invece più esigui. Quasi in fondo alla classifica dei Paesi presi in esame da Eurostat c’è l’Italia (3,2). Peggio di noi (3,1) solo la Slovenia.

Sono dati che non sorprendono, ma che allarmano e amareggiano perché confermano il vuoto di prospettive che schiaccia i giovani, il timore del futuro, la fatica di assumere decisioni definitive, ma anche la solitudine. Non stupisce perché, se in una società tutto sembra congegnato per smantellare il valore del far famiglia e per svuotare di significato la scelta di sposarsi, è poi inevitabile che il numero dei matrimoni arrivi a quote irrilevanti. Meno matrimoni, meno nascite, meno prospettive di crescita vuol dire tracciare il profilo di una società ingrigita, che non riesce più a rigenerarsi e sembra quindi destinata all’autoestinzione. L’Italia senza fiori d’arancio diventa anche l’espressione di una società matrigna, in cui i giovani sono costretti ad andare all’estero – 86mila nel 2018 – per trovare lavoro ma anche condizioni più favorevoli alla costruzione di nuove relazioni.

Guardando la situazione dei Paesi che ci superano nella classifica dei matrimoni (quasi tutti, come detto) si vede che esistano aree segnate positivamente da un fervore di rinnovamento sociale come i Paesi baltici, dove l’entusiasmo dei giovani è direttamente proporzionale alla voglia di futuro delle istituzioni.

E poi altre aree che appaiono espressione di un welfare consolidato (Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania, Austria) dove gli interventi dello Stato sociale convincono i giovani a uscire di casa, a scommettere sulla possibilità di farcela da soli, a sposarsi con percentuali che sono anche doppie rispetto all’Italia. Un’autonomia che è innanzi tutto un dato culturale diffuso, frutto di scelte familiari prima che di programmi statali. Certo, poi in quei Paesi anche i tassi di divorzio sono molto più elevati, ma la propensione al rischio non viene meno per il timore del fallimento.

E cosa fare per il declino italiano? «Serve un patto per rilanciare il matrimonio », commenta Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni familiari, da mesi già impegnato nel diffondere le buone ragioni del 'Patto per la natalità'. Due aspetti che vanno evidentemente in coppia. «I figli nascono per lo più all’interno del matrimonio e in ogni caso – riprende De Palo – per crescere in modo equilibrato hanno bisogno del clima rassicurante di una famiglia. Per noi il matrimonio rimane evidentemente centrale anche se tutto oggi sembra svuotarlo di significato, dalle unioni civili alla proposta sui patti prematrimoniali per finire con il reddito di cittadinanza».

Pochi giorni fa su 'Avvenire' (articolo di Massimo Calvi sul Reddito di Cittadinanza) abbiamo ricordato come in Italia sistema fiscale e parte del welfare siano pensati per disincentivare il matrimonio, favorire le convivenze e premiare la separazione, secondo una logica folle che privilegia la precarietà delle relazioni rispetto a chi continua a perseguire scelte coerenti di responsabilità e di dedizione fedele agli impegni assunti.

Anche grazie a questa deriva masochistica oggi non a caso ci troviamo in fondo alla classifica dei matrimoni. Il messaggio sta arrivando forte e chiaro: da noi sposarsi paradossalmente non 'conviene' più. E, in assenza di consenso sociale e di sostegni fiscali, meglio convivere in modo libero, senza legami burocratici. Ma meglio per chi? «Oggi il sistema economico in Italia sembra emarginare chi si sposa – conferma l’avvocato Vincenzo Bassi, vicepresidente della Federazione associazioni familiari cattoliche (Fafce) – e forse dovremmo fare un po’ di mea culpa anche noi perché, evidentemente, non siamo stati in grado di spiegare che la famiglia viene prima di tutto, e non come oggi è intesa, esattamente all’opposto».

Solo il fatto che nel nostro Paese esistano coppie che trovano vantaggiosa una separazione fittizia per aggirare una tariffa o per piazzarsi meglio nella classifica dei genitori in attesa di un posto al nido, lascia capire come il sistema sia pensato in modo deleterio e comunque in una logica anti-famiglia. Siamo arrivati al paradosso di una società che non solo evita di premiare il matrimonio come scelta di bene comune, ma addirittura lo trasforma in decisione da penalizzare.

«Un tempo – riprende Bassi – ci si sposava per avere un riconoscimento sociale, oggi si è costretti a separarsi per strappare vantaggi fiscali. Non è solo un’ingiustizia. Si tratta proprio di un vero abominio giuridico». Motivi importanti, ma che non bastano ancora a penetrare un quadro di grande complessità. Per comprendere davvero in profondità le ragioni di questa fuga italiana dal matrimonio, non possiamo evitare di indagare anche il progressivo distacco dall’appartenenza ecclesiale. Perché non possiamo nascondere il fatto che, nel crollo dei numeri dei matrimoni, quelli religiosi siano in più rapido assottigliamento. Il dato non emerge dalla statistica di Eurostat che non fa distinzione tra matrimoni civili e nozze celebrate in chiesa, ma è noto che esistano previsioni statistiche che, per quanto riguarda l’Italia, fissano al 2020 l’anno del sorpasso tra nozze civile e nozze religiose.

Non si tratta di indovinare quando succederà davvero, ma di chiedercene le ragioni. Perché questo 'gelo' tocca da vicino proprio l’Italia dove l’attenzione al matrimonio, con tante esperienze significative di accompagnamento e di preparazione, è da sempre un tratto caratteristico dell’impegno ecclesiale? Come mai le valanghe di documenti, di iniziative, di proposte pastorali non sono mai scese dai vertici alla base? Come mai non hanno inciso sulle scelte affettive dei giovani? Il Papa in Amoris laetitia, invita la Chiesa all’autocritica: troppo spesso abbiamo presentato il matrimonio come un ideale teologico troppo astratto «lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglia così come sono» (n.35). Siamo caduti in un’idealizzazione eccessiva, abbiamo insistito su «questioni dottrinali, bioetiche e morali» (n.37) dimenticando il valore della grazia e ignorando il fatto che il matrimonio è un percorso dinamico, in cui si cresce insieme.

«Da noi i dati risultano peggiori che altrove – fa osservare Pietro Boffi, responsabile del settore documentazione del Cisf (Centro internazionale studi famiglia) – proprio perché il matrimonio è connesso con una scelta di tipo religioso. Nel Nord Europa, e specialmente nei Paesi protestanti, è invece scelta laica. Da noi rimane gesto forte, caricato di una valenza che investe scelte definitive (il 'per sempre'), mentre all’estero non è così. E, visto che oggi queste scelte definitive fanno sempre più paura, il matrimonio da noi crolla, mentre in altri Paesi le percentuali rimangono più elevate perché si tratta di una scelta intesa spesso a tempo determinato, con scarso coinvolgimento sociale».

Insomma, se il matrimonio light modello Europa del Nord trova ancora ampi consensi, quello all’italiana connotato da un importante apparato ideale e spirituale – e forse anche da cerimonie molto costose – finisce per essere scelta residuale. Sarà. Ma rassegnarsi al declino della più significativa tra le relazioni vuol dire accettare una società in cui i legami rischieranno di essere meno coesi, meno solidali, meno intensi. Una società più fragile. È questo che vogliamo?