Opinioni

La nostra democrazia e i referendum. L'Italia normale che sogniamo

Danilo Paolini venerdì 10 giugno 2022

L’8 e il 9 novembre 1987 gli italiani furono chiamati a votare su cinque referendum, tre riguardavano l’energia nucleare e due la giustizia. L’affluenza al voto fu massiccia, oltre il 65%, e i Sì (all’abrogazione delle norme oggetto dei quesiti) vinsero a valanga, con percentuali tra poco meno del 72% e l’85%. Anche allora le domande sulle schede erano complesse e, come si suol dire, 'tecniche'. Del resto, si tratta pur sempre di leggi, articoli, commi.

Tanto che la grandissima parte degli elettori sconvolta dal disastro della centrale di Chernobyl dell’anno precedente - era convinta di esprimersi sulla possibilità o meno di produrre energia nucleare in Italia, mentre i quesiti incidevano sulle modalità di localizzazione dei siti per la costruzione di nuove centrali, sui contributi pubblici agli enti locali che accettavano di ospitarle, sulla possibilità per l’Enel (all’epoca ente totalmente pubblico) di avviare joint venture (ma non si diceva ancora così) con società straniere per la realizzazione di impianti nucleari all’estero.

Il successo dei Sì bloccò comunque di fatto la produzione di energia atomica italiana, ma non la rese impossibile. Infatti nel 2011 si tenne un nuovo referendum che proponeva di cancellare le norme, appena approvate, che consentivano la produzione di energia elettrica nucleare sul territorio nazionale. L’affluenza fu del 57%, mentre i Sì abrogativi nel nuovo referendum sul nucleare e agli altri tre di quella tornata (su servizi pubblici locali, acqua pubblica e legittimo impedimento del presidente del Consiglio a comparire in udienza penale) si attestarono intorno al 95%.

Quanto ai due referendum in materia di giustizia del 1987, certo non erano meno 'tecnici' di quelli sui quali siamo chiamati a votare domenica prossima: riguardavano la responsabilità civile dei magistrati (Enzo Tortora, innocente, fu arrestato e messo alla pubblica gogna nel 1983, assolto definitivamente, dopo un calvario giudiziario, proprio in quel 1987) e l’abolizione della Commissione inquirente, che avrebbe permesso di far processare i ministri dalla magistratura ordinaria e non più dalla Corte Costituzionale.

Sbaglia, perciò, chi sostiene che i cinque quesiti che saranno sottoposti al corpo elettorale in questa tornata sono troppo 'difficili', roba da giuristi. Non è questo il punto. I 30 milioni di italiani che votarono ai referendum del 1987 non erano tutti giuristi né tutti fisici nucleari. Così come i 27 milioni di votanti del 2011. Eppure, in vista di domenica prossima, perfino tra i sostenitori dei referendum si mostra di non credere al raggiungimento del quorum del 50% più uno degli aventi diritto, necessario affinché il risultato dei referendum abrogativi sia valido. Quorum per altro mai raggiunto dal 1997 al 2016, con l’eccezione appunto del 2011.

Nel caso andasse male, c’è chi è già pronto a dare la colpa all’«oscuramento informativo» della campagna referendaria, ma ha tutta l’aria di un vecchio, legittimo artificio della campagna stessa, anche perché tutti i giornali, i siti d’informazione e le tv hanno dedicato spazio ai quesiti e alle loro conseguenze in caso di vittoria dei Sì. Insomma, l’impressione è che i cittadini che davvero non sono informati non si vogliano informare.

Per il resto, azzardiamo, si tratta forse di un problema di percezione. Manca la percezione di essere chiamati a decidere su grandi questioni. Sostituita, magari, dalla spiacevole impressione di dover legiferare 'per sottrazione', cancellando con un tratto di matita copiativa leggi o pezzi di leggi che la politica non ha voluto o saputo cambiare. Vale per la legge Severino e per la custodia cautelare, oggetto di due dei cinque quesiti di domenica.

Come vale soprattutto per i tre referendum sulla magistratura, che affrontano materie trattate anche nella riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm che approderà in aula al Senato per il voto finale soltanto mercoledì 15 giugno. Avevamo sperato che per una volta la politica arrivasse prima, ma avevamo sognato. Nell’Italia dei sogni, in effetti, succede il contrario: è il Parlamento che fa le leggi e se necessario le riforme, lasciando la facoltà a comitati di cittadini (anche ai partiti, ma non solo ai partiti o ai leader di partito) di mobilitarsi per abolirle in tutto o in parte con i referendum.

Magari l’Italia dei sogni alzerebbe il numero delle firme necessarie per proporli, visto che 500mila firme si trovano ma poi, troppo spesso, le urne restano semivuote. Nel-l’Italia dei sogni un leader non si sogna, appunto, di dire agli elettori che con un Sì possono finalmente risolvere i problemi della nostra giustizia, per un semplice motivo: non è vero. D’altra parte, nell’Italia dei sogni chi è per il No non usa come suo principale argomento l’accusa agli avversari di voler punire la magistratura o di volerne scardinare l’autonomia, in questo caso per due semplici motivi: non è credibile e non è possibile.

Nell’Italia dei sogni votare Sì o No, oppure decidere di non andare a votare per bocciare anche così il ricorso al referendum, sono scelte di partecipazione consapevole (con la convinzione, perché no?, di scrivere un pezzo di storia) e non di disimpegno, di stanchezza, di disillusione. A pensarci bene, che Paese normale sarebbe l’Italia dei sogni! Comunque vada domenica, lunedì sogniamo di svegliarci lì.