Migranti. L'isola da sogno che l'uomo ha reso inferno per profughi
Temili, trovali, nascondili, cacciali: in ogni caso, trasferiscili subito. E così via, senza fermarsi. Senza pensare se siano iracheni, iraniani, siriani o curdi; se meritino altra fame, disperazione e torture fisiche, dopo quelle patite per raggiungere il sogno dell’Australia. Perché scappare oggi è visto da alcuni governi occidentali come una colpa: chi fugge da guerre, miserie, effetti del surriscaldamento globale, è visto spesso come un parassita. O almeno in tal maniera viene trattato sull’isola di Nauru, lontanissimo 'paradiso perduto' della Micronesia nell’Oceano Pacifico, dove un rifugiato è un 'trasferito' (secondo la terminologia del governo australiano) a cui si deve applicare un 'trattamento di deterrenza'. Nauru, battezzata 'Isola Piacevole' dai primi coloni inglesi in Australia ad inizio Ottocento, è oggi un inferno a cielo aperto, definita nel titolo di un recentissimo report di Amnesty International l’'Isola della disperazione'. Un luogo la cui storia recente è metafora di come la nostra specie nel mondo stia attentando ai propri simili e alla consistenza del suo habitat naturale.
Per usare le parole del 'Guardian', «l’Australia ha arruolato uno stato confinante come vassallo con l’incarico di gestire una prigione per persone che non hanno commesso alcun crimine». Benvenuti nella Repubblica indipendente di Nauru, un’isola che conta circa diecimila abitanti e, all’ultima stima, circa un migliaio di profughi registrati, di cui 755 richiedenti asilo (di questi, circa 150 sono bambini): provengono principalmente da Iraq, Siria, Somalia, Afghanistan, Bangladesh, Iran, Pakistan. E come è scritto nel report di Amnesty International, che recentemente ha portato alla luce le condizioni disumane dell’accoglienza dei profughi su Nauru, i funzionari del governo australiano esercitano un controllo pressoché totale sul governo insulare, anche se si nascondono dietro la sovranità dell’isola quando serve a scaricare le responsabilità.
E proprio per scoraggiare qualsiasi profugo o migrante a sognare di raggiungere l’Australia, nel 2001 è nata la struttura d’accoglienza 'Nauru Regional Processing Centre'. Solo un anno più tardi, i 'trasferiti' nel centro isolano già lamentavano la carenza di acqua potabile e le condizioni di sovraffollamento. Dieci anni dopo, suor Marianne Evers, che aveva assistito per anni profughi nella struttura, ha definito il centro di Nauru come un «campo di concentramento». Così, per evitare fughe di notizie e telecamere fastidiose, nel 2014 il governo di Nauru ha incrementato il costo per il 'visto' per i giornalisti sull’isola da 200 a 8mila dollari a persona: anche se si paga, il visto viene spesso negato. Ma dopo l’inchiesta di Amnesty su Nauru, si sono mobilitati media e istituzioni internazionali. Solo qualche giorno fa François Crépeau, Relatore speciale sui diritti umani dei migranti per le Nazioni Unite, ha definito le condizioni dei profughi a Nauru come «crudeli, inumane, degradanti: il governo australiano protesterebbe con veemenza se i suoi cittadini, e in particolare i suoi bambini, fossero trattati così».
Come? Pensiamo solo a quest’ultimo anno e a due ragazzi detenuti a Nauru, Omid Masoumali, ventitreenne iraniano, e Hodan Yasin, ventenne somala. Il primo si è dato fuoco davanti ad una videocamera. Prima di sacrificarsi, ha detto: «Quest’azione proverà quanto siamo esausti qui. Non ce la faccio più». Purtroppo, anche Yasin si è suicidata dandosi fuoco, dopo essere stata riportata a Nauru quando ormai era persuasa di aver conquistato l’ambita residenza in Australia. Tragico è anche che i due atti estremi siano stati compiuti a meno di dieci giorni di distanza e che nel frattempo ci siano stati altri sei casi di tentato suicidio tra i residenti del centro di Nauru. Tra il 2013 e il 2015 si contano circa duemila casi di violenza nel centro della Micronesia, di cui oltre il 50% ha riguardato bambini: si descrivono abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche, in un contesto dove per i profughi non c’è cibo, né acqua o condizioni sanitarie accettabili. C osì i profughi provano troppo spesso a suicidarsi. Secondo Amnesty International, non si tratta di una particolare efferatezza del governo di Nauru, ma dell’effetto del sistema di deterrenza australiano: impedire ai rifugiati di raggiungere il territorio governato da Camberra e scoraggiare i nuovi profughi a raggiungere un luogo che somiglia tanto ad una prigione. Al momento, il governo del premier australiano Malcolm Turnbull ha stretto un accordo con l’amministrazione Obama per il trasferimento dei 'soli rifugiati' da Nauru e da un altro centro nell’isola di Manu negli Usa. Sembrerebbe un’ottima notizia, dovuta alla grande pressione internazionale, sennonché A sinistra, la posizione dell’isola di Nauru, repubblica indipendente a nordest dell’Australia. Sopra, bambini giocano in un quartiere per minatori stranieri. Sotto, una veduta aerea del campo profughi del governo Australiano bisognerà vedere se l’accordo sarà rispettato dal neo-eletto Donald Trump, poco incline all’accoglienza ai migranti.
Nauru è una metafora omnicomprensiva di ciò che oggi non va sul nostro pianeta. Non c’è solo la chiusura all’immigrato, degradato e disumanizzato. La storia di Nauru racconta anche gli effetti devastanti dell’economia estrattivista nel nostro mondo. Fino a meno di un secolo fa, gli autoctoni di Nauru erano ricchissimi: negli anni Ottanta i nauruani avevano «il prodotto nazionale lordo pro capite più alto al mondo», i poliziotti giravano in Lamborghini, «alle nostre feste», racconta l’autoctona Steshia Hubert, «i regali di compleanno erano automobili e cuscini imbottiti da centinaia di dollari». La fortuna degli isolani fu la scoperta che il guano di uccelli migratori da cui era stata composta – in secoli – la montagna centrale dell’isola, a contatto con il corallo aveva creato un raro fosfato di calce: in sintesi un potentissimo fertilizzante naturale. I nauruani lo vendettero con guadagni enormi, disboscando il territorio e scavando fino a consumare per intero la montagna che sovrastava il centro dell’isola: già negli anni Ottanta si immaginava che gli abitanti avrebbero dovuto abbandonare Nauru per sempre.
Peccato che persero gran parte delle loro ricchezze in investimenti sbagliati e truffaldini, e negli anni Novanta l’isola si era riciclata come uno dei più grandi paradisi fiscali al mondo. Una soluzione economica che durò poco, fino a traghettare Nauru al presente dove versa in uno stato di bancarotta finanziaria e quindi soggetta fortemente alle richieste del governo australiano (il grande vicino che un giorno promette di accogliere i nauruani), è abitata da autoctoni affetti da un’altissima incidenza di diabete (causato anche dall’eccessivo benessere), ha pochissimi decenni davanti a sé: tolta la montagna, anche le spiagge saranno probabilmente inghiottite dall’innalzamento dei mari, causato dal surriscaldamento globale. Circa dieci anni fa l’australiano Gleen Albrecht, docente di sostenibilità, ha coniato il termine 'solastalgia'. Questa parola unisce i lemmi latini 'solacium' (conforto) e 'algia' (dolore) e secondo Albrecht significa: «La nostalgia di casa che si prova quando si è ancora a casa». Il riferimento era proprio al sentimento comune degli abitanti dell’isola di Nauru, metafora della perversa follia estrattivista dell’economia contemporanea che sacrifica anche il suolo su cui si vive. Scrive infine Albrecht che questa storia locale sta diventando un’esperienza umana universale: «Per quanto cattiva possa essere la trasformazione locale e regionale, è il quadro generale, la Terra intera, ad essere oggi una patria presa d’assalto». Non certo dai profughi, ma dalla nostra stessa, cieca, avidità.