Opinioni

Immigrati. L'irragionevole strategia della chiusura

Maurizio Ambrosini sabato 1 dicembre 2018

Non passa giorno senza che il Governo, e segnatamente il ministro dell’Interno, intervenga su qualche tema connesso all’immigrazione. E il messaggio, alla fine, è sempre lo stesso: linea dura, condanna politico-mediatica degli 'umanitari', chiusure senza appelli. L’accoglienza di una cinquantina di africani con un 'corridoio umanitario' gestito dal Viminale (e non solo concordato con esso) è una buona notizia, ma non cambia l’impostazione. Sul campo rappresentato dalle nostre città e dai nostri paesi, l’ultima uscita in ordine di tempo è stata la chiusura della tendopoli romana allestita dal centro Baobab. La penultima era stata la versione finale del cosiddetto decreto sicurezza: meno protezione umanitaria, meno fondi e meno servizi per l’accoglienza, più soldi per le espulsioni, raddoppio del tempo di trattenimento (da 90 a 180 giorni) nei Centri di permanenza per il rimpatrio (ex Cie), aumento dei posti rispetto agli 880 attuali. Pare che a molti italiani piaccia, anche se quelli che non ci stanno hanno cominciato a organizzarsi e far sentire la loro voce.

La sensatezza di queste misure va valutata anzitutto da un punto di vista pragmatico, di ragionevolezza, domandandosi se sono efficaci e se hanno probabilità di raggiungere degli scopi socialmente desiderabili. Dobbiamo allora confrontare i fini asseriti con i mezzi previsti per raggiungerli e con le difficoltà prevedibili. Il primo fine dichiarato è quello di ridurre l’incidenza dell’immigrazione non autorizzata e del numero delle persone arrivate in Italia in cerca di asilo. Il secondo è quello di innalzare la sicurezza dei cittadini, contrastando il degrado e l’illegalità: termini spesso sovrapposti e confusi.

Ora, è facilmente prevedibile che la stretta sulla protezione umanitaria sia destinata ad aumentare il numero delle persone che non otterranno un permesso per risiedere in Italia, ricevendo un ordine di espulsione. Come probabilmente gran parte dei residenti nella tendopoli romana. Ma il decreto di espulsione non è una bacchetta magica che fa scomparire le persone. Per rimpatriare gli immigrati non autorizzati, una volta identificati e stabilito con certezza da dove provengono, servono degli accordi con i governi dei Paesi di origine. Altrimenti il rimpatrio è pressoché impossibile. Malgrado varie trasferte in Africa di diversi esponenti governativi, i risultati finora sono stati nulli: non ne hanno ancora firmato uno. In secondo luogo, il governo ha portato a 1,5 milioni i fondi per le espulsioni, sottraendoli alle spese per l’integrazione co-finanziate dalla Ue. Se si calcola prudenzialmente un costo di 1.000 euro per espulsione, calcolando il trattenimento, il viaggio, la missione della scorta, si può prevedere di espellere 1.500 malcapitati. Gli altri rimarranno in Italia. Il risultato pressoché certo delle nuove norme sarà un aumento delle persone allo sbando nelle nostre città, senza tetto né legge. Qualche governo locale infatti ha cominciato ad accorgersene. Pure gli investimenti nei centri per il rimpatrio serviranno a poco: anche riportando a 2.000 posti la capienza, e utilizzando altre strutture ancora da individuare, sarà sempre trattenuta una modesta frazione dei potenziali destinatari. Fra l’altro al tempo dei governi Berlusconi-Maroni il tempo di trattenimento era stato portato a 18 mesi, ma gli espulsi alla fine erano meno della metà degli immigrati così lungamente trattenuti. Qui entrano in scena soluzioni precarie, e sotto vari aspetti inadeguate, come quella del Centro Baobab. Se le istituzioni pubbliche centrali producono persone senza protezione e quelle locali non se ne fanno carico, le persone comunque rimangono: hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni.

Mancando le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Per fortuna, viene da dire. Sgomberando gli accampamenti abusivi senza offrire alternative si genera soltanto più degrado. Chi pensa che gli immigrati così trattati finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Più problematici per la società.

Le chiusure e gli sgomberi dunque possono servire alla propaganda, non alla costruzione di soluzioni serie e ragionevoli al problema complesso di governare l’immigrazione.

Ordinario di Sociologia, Università di Milano, e Cnel