Una famiglia polacca e i fratelli ebrei. L'interezza del bene
Nessuno si salva da solo. E se ce lo fossimo dimenticati, se le guerre e le crisi finanziarie non bastassero a ricordarcelo, ha provveduto la pandemia a rendercelo ben presente. Ma è già dal primo scoccare della vita, naturalmente possibile solo dentro una relazione, che l’essere legati indissolubilmente gli uni agli altri ci segna in modo indelebile: il nostro destino non si realizza mai nella perfetta solitudine, ma dentro una trama di rapporti, tanto più se in gioco c’è una meta importante, ambiziosa, decisiva.
Non si può sottrarre a questa regola la stessa santità, proposta dalla Chiesa come forma compiuta della vita di fede. Sebbene sugli altari vengano quasi sempre proposte figure individuali, il loro cammino non è mai stato da eroi isolati: anzi, è la dimensione della carità verso il prossimo e la capacità di darsi agli altri senza calcoli a rivelare infallibilmente la “stoffa” del santo, la sua prossimità a Dio, l’autenticità di una figura tanto vicina all’ideale evangelico da poter essere proposta al popolo cristiano come meritevole di essere conosciuta e imitata. La santità di una vita non è mai un oggetto da collezione, ma emerge come un disegno complesso dall’intreccio di un’infinità di fili che hanno intessuto i giorni e gli anni. Ce lo insegnano proprio i santi e i beati che la Chiesa sta proclamando negli ultimi decenni, come sotto la spinta sempre più consapevole del vento conciliare. Ed è spesso la famiglia a emergere come l’ambiente dove si è realizzata la tessitura di un capolavoro della quotidianità cristiana, tanto lontano dai riflettori del mondo quanto vicino al nostro cuore.
È così che veniamo a scoprire con stupore figure umili e straordinarie come quelle di Józef e Wiktoria Ulma, giovani sposi di Markowa, cittadina rurale polacca a metà strada tra Cracovia e Leopoli, uno dei nodi dolenti della storia dei nostri giorni, la via dei profughi ucraini verso occidente. Fu per dare salva la vita ad altre vittime di guerra che nel 1944 i due coniugi - già genitori di sei figli tra otto anni e 18 mesi, più un settimo in arrivo e ormai vicino alla nascita - decisero di aprire la porta a otto concittadini ebrei, che riuscirono così a scampare alla deportazione di massa della folta comunità israelitica del paese. Per Józef, frutticoltore, e Wiktoria non si trattava solo di raddoppiare la famiglia, perché le spietate regole dell’occupante nazista erano chiare: chi fosse stato scoperto a dare rifugio a ebrei avrebbe pagato con la vita. E quando il 24 marzo 1944, militari tedeschi irruppero in quella fattoria fuori mano per la soffiata di uno sciagurato non ci fu pietà né per gli otto ebrei, uccisi con un proiettile alla nuca, né per i due sposi, falciati a colpi di mitra sotto gli occhi dei figli. La disperazione dei piccoli per l’atroce scena anziché impietosire i carnefici li esasperò, e con una raffica fu soffocato anche il loro pianto, che da allora risuona dentro il grido senza fine delle vittime innocenti di ogni tempo.
Questa storia terribile ed esemplare della brutalità abietta della guerra e del razzismo è rimasta pressoché ignota fuori dalla Polonia. Sino a ieri, quando autorizzando la promulgazione del decreto che riconosce il martirio di Wiktoria, Józef e dei loro figli il Papa ha estratto dall’oblìo il loro sacrificio mostrandone tutta l’eloquenza per questo tempo e, insieme, offrendo la singolare e potente immagine di un’intera famiglia numerosa che va dritta sugli altari: dal papà poco più che quarantenne all’ultimo figlio ancora nel grembo della mamma, anch’egli destinato alla beatificazione pur non ancora nato, quintessenza dell’umanità più indifesa affidata alla nostra custodia. Gli Ulma erano dunque in nove: e in nove saranno riconosciuti beati, mostrando nel loro animato ritratto (il papà era un appassionato fotografo, e ha lasciato vari scatti dei suoi cari) l’immagine di quella condivisione di vita che è l’anima stessa di ogni famiglia. Mamma e papà avevano messo a disposizione la loro vita per soccorrerne altre che sperimentavano l’angosciante certezza di non aver scampo senza un abbraccio solidale. Possiamo essere certi che quella generosità priva di calcoli fosse lo stile di casa Ulma, al quale stavano crescendo Stasia, Basia, Wladzio, Franus, Antos e Marysia (i nomignoli dei sei figli già nati), mentre immaginiamo come in quella fattoria, tra familiari e ospiti segreti, si fosse creato un clima di fraternità.
In casa impariamo a essere quel che siamo, reciprocamente legati sino a sentirci un corpo solo, esempio gli uni per gli altri. Che nessuno si salva da solo l’abbiamo imparato anche e soprattutto in famiglia. Ora abbiamo conferma che pure in cielo ci si va non da scalatori solitari, in cerca dell’impresa eroica, ma tutti insieme.