Seppi dell’elezione del nuovo papa Giovanni Paolo II dall’improvviso scampanìo festoso della basilica milanese di Sant’Ambrogio. Fu un sussulto e un’improvvisa gioia: oggi so che quella gioia spontanea non era solo per il nuovo pontefice, ma anche per un nuovo «santo» della Chiesa Cattolica. Ancora una volta la divina misericordia aveva chiamato un uomo a confermare la fede dei suoi fratelli, e questo papa Wojtyla l’ha fatto non solo con una straordinaria capacità d’iniziativa e con l’esempio eroico della sua vita, ma anche attraverso una rinnovata cura dell’intelligenza della fede. Questa è stata una direttrice di tutto il suo pontificato, preoccupato di liberare la fede dalla riduzione sentimentale o pragmatica e la ragione dall’estraneità alla fede vissuta. Direttrice che papa Benedetto XVI ha attentamente ripreso e sviluppato.Tre sono senz’altro i luoghi del magistero di Giovanni Paolo II in cui risplende particolarmente il suo insegnamento sull’unità tra fede e ragione. Anzitutto il tema della cultura, tema carissimo al Papa polacco, sensibile all’approccio non intellettualistico all’uomo, ma nel concreto del suo vivere umano, che è vivere culturale: «L’uomo vive una vita veramente umana grazie alla cultura». Con la sua espressività culturale l’uomo abita il mondo e, col suo agire stesso, pone le questioni fondamentali dell’esistenza, il problema del senso del suo fare, progettare, trasformare, l’esperienza della sua comunione nei significati universali della cultura. Si ricordi il memorabile discorso sulla cultura all’Unesco nel 1980, che concludeva con l’idea che la fede trova nella cultura il luogo stesso del suo incontro con l’umano; per cui il Papa potrà anche dire che non può essere fede pensata e matura, veramente incarnata, quella che non diventa cultura.Il secondo luogo è il magistero che affronta direttamente il rapporto tra fede e ragione, sia come ragione teorica, sia come ragione pratica e morale. Sono strettamente congiunte in questo l’enciclica «Fides et ratio» (1998) e le due encicliche sull’etica «Veritatis splendor» (1993) ed «Evangelium vitae» (1995), pietre miliari della coscienza credente nella postmodernità quanto al valore della ragione e all’intimo suo nesso con la fede. La critica alla ragione moderna non coincide con la crisi della razionalità umana, che ha nella fede cristiana non solo un interlocutore, ma ancor prima un custode. La fede è ragione e volontà convertite alla Verità del Verbo incarnato: la fede conosce perciò dall’interno il valore della ragione e questa trova nella fede il suo senso ultimo.Il terzo luogo è l’ampio magistero sociale, che comprende – vale ricordarlo – le encicliche «Laborem exercens» (1981), «Sollicitudo rei socialis» (1987), e «Centesimus annus» (1991), uno straordinario patrimonio di pensiero in cui di nuovo la fede si misura con la questione della verità, della verità etico-sociale. Un altro esempio della fecondità dell’intelligenza della fede, con la quale Giovanni Paolo II ha vissuto e insegnato un’acuta coscienza del travaglio epocale del mondo contemporaneo, e ne ha offerto una lettura teologica di cui abbiamo ancora bisogno.