Credibilità in Ue. L'insostenibile ostinazione sul Mes che rischia di farci inciampare
Una qualità che va riconosciuta al governo di Giorgia Meloni è che certamente non fa annoiare. Giovedì, mentre a Roma la premier annunciava una più stretta cooperazione con la Germania del cancelliere Scholz, a Lussemburgo l’esecutivo di destra-centro in Europa spezzava (finalmente) l’asse con Ungheria e Polonia per chiudere un’intesa sui migranti che, tuttavia, non sembra ancora assommare le caratteristiche dell’efficacia e del pieno rispetto dei diritti umani. Ieri, in tutt’altra location (la masseria di Bruno Vespa in Puglia), la leader di Fdi ha di nuovo picchiato duro sul Mes (Meccanismo europeo di stabilità), vecchio “pallino”, tornando a dare un grattacapo all’Europa (e pure alla Germania). E ribadendo così un punto fermo che peraltro, in prospettiva, può essere un motivo d’intralcio a quella eventuale maggioranza europea, dopo le elezioni 2024, costituita soprattutto da popolari e conservatori dell’Ecr, che si dice sia l’obiettivo a cui mirerebbe la stessa Meloni.
È un ginepraio di posizioni diverse che movimentano il quadro europeo e che sostanziano quell’Italia «non più spaghetti e mandolino» che Meloni, reduce anche dalle frizioni diplomatiche con la Francia, dice di vo-ler rappresentare. Su queste colonne abbiamo sostenuto che il capo del governo ha anche dei motivi di ragione nella linea che porta avanti di una integrazione europea che deve procedere di pari passo per tutti, senza eccezioni (come quella tedesca che invece da quasi 9 anni blocca la garanzia comune sui depositi bancari e, quindi, la “piena” Unione bancaria). Ma questo non giustifica quello che ormai è un insostenibile accanimento nell’opporsi, unico Paese fra i 17 che danno vita al Mes, alla ratifica di questo strumento, anche davanti al passaggio in Parlamento chiesto da Pd e Terzo polo e fissato per il 30 giugno. Certo, dispiace a tutti tenere “bloccati” 14 miliardi di euro (tale è la quota di spettanza dell’Italia da versare per il capitale Mes) «in una fase in cui tutti cerchiamo risorse», come ha detto ieri Meloni, ma è una motivazione che non regge perché tutti i “salvadanai” (come in fondo è il Mes) hanno una funzione che va al di là del contingente. E non basta ripetere ossessivamente che l’eventuale ricorso al Mes sarebbe «uno stigma». In primo luogo, perché basterebbe rafforzare le “contromisure” nazionali per evitarne il ricorso e soprattutto perché ben maggiori sarebbero i danni e il disonore nel caso di una “bocciatura” dell’Italia (Stato con «squilibri macroeconomici eccessivi», ha ricordato di recente la Commissione Ue) sanzionata un domani dai mercati, che comporterebbe tagli di spesa e aumenti d’imposte anche più pesanti dei sacrifici connessi a un’attivazione del Mes. È per queste ragioni che il Belpaese non pare avere le carte giuste nemmeno per intavolare una sorta di scambio fra ratifica del Mes e nuovo Patto di stabilità sulle regole di bilancio.
Uscite come quella di ieri denotano soprattutto il riproporsi delle vecchie pulsioni sovraniste, antico retaggio della destra, che rischiano peraltro di minare quella credibilità che il governo Meloni sta invece faticosamente acquisendo in qualche modo in Europa (lo testimonia anche il viaggio congiunto con Ursula von der Leyen domani a Tunisi). E riportano a galla l’antica tentazione di “far da soli”, che caratterizza anche la tormentata attuazione del Pnrr dove un maggior raccordo con gli altri partiti e forze sociali sarebbe stato utile. L’inquilina di Palazzo Chigi è chiamata a camminare su un precario equilibrio fra l’assecondare la Ue e l’Occidente (cosa che invece sta pienamente facendo, anche al di là delle aspettative, in un altro campo come la guerra russa all’Ucraina) e il cercare di mantenere almeno qualcuna delle tante promesse fatte, prima, agli elettori. Deragliare da questo equilibrio può mettere a repentaglio il Paese e “armare” quegli ambienti internazionali – e ce ne sono – che aspettano appunto un momento di isolamento e difficoltà dell’Italia per scatenarsi. Col rischio, qualora succedesse, di dover procedere poi a capo chino anziché a quella «testa alta» evocata ieri dalla premier.