La condanna di Trump e il voto. L'impresentabile alla Casa Bianca? Le colpe americane
I giornali Usa il giorno del verdetto su Trump
«Io sono innocente. Il procuratore speciale Jack Smith è uno squilibrato e uno psicopatico che mi odia e non dovrebbe essere coinvolto in nessun caso che abbia a che fare con la giustizia, se non investigare Biden, che è – lui sì – un criminale! ». «Il giudice Juan Merchan mi odia. Altrimenti non avrebbe accettato il verdetto di colpevolezza. Io sono un prigioniero politico».
Sono alcune delle tante invettive di Donald Trump, alle quali siamo ormai quasi assuefatti, anche se, ora che ha la palla al piede di una condanna penale, meriterebbe un nuovo soprannome: Donald l’Impresentabile.
Ma sappiamo già che nessuna Stormy Daniels, nessun faldone di documenti riservati trasferiti nottetempo a Mar-a-Lago, nessun concorso esterno nell’insurrezione del 6 gennaio a Capitol Hill potrà inficiare la sua candidatura né precludergli la possibilità di diventare, se dovesse prevalere, il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti.
Ma davvero, si domanda l’uomo della strada, un candidato condannato per reati gravi può tornare a essere l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni? Nel suo recente Impeachment, An American History, il Premio Pulitzer Jon Meacham afferma: «Se malamente maneggiato, l’impeachment gioca fatalmente a favore dell’accusato ». Ce n’eravamo ampiamente accorti allorché la messa in stato di accusa nei confronti di Donald Trump nel 2021 non fece altro che irrobustirne l’aura del perseguitato, insieme a quella del Big Lier, il grande bugiardo.
Il tema si ripresenta oggi, dopo la pronuncia della Corte. Forse il verdetto di Manhattan gli porterà nuovi seguaci, nuovi voti. Ma il vero problema è un altro. In una società in cui certi valori fossero stati giudiziosamente conservati – la dignità, l’onore, quel common good (il bene comune) che discende da una gloriosa ghirlanda di uomini di pensiero, da Platone ad Aristotele, da Tommaso D’Aquino a John Locke, da Rousseau ad Adam Smith a Karl Marx a John Maynard Keynes – forse non avremmo assistito al perturbante scollamento fra politica e legalità, fra rispetto delle leggi e della Costituzione e sinistri rumori di sciabole.
A farne le spese è stato proprio il concetto di Bene Comune, naufragato fra le secche delle invettive millenaristiche dei Maga (Make America Great Again), i copricapi cornuti di QAnon e il sistematico vittimismo di un ex presidente incapace di rispettare le leggi e la Costituzione sulla quale aveva giurato, che tuttavia rimane ancora in leggero vantaggio sul suo avversario. A ciò è giunta oggi l’America, complice – va detto – un peloso relativismo sociale che ha avvolto il Partito democratico in un sudario di opportunistici silenzi su temi morali e civili che hanno consentito in parte quella deriva e quella mutazione antropologica che ha colpito entrambi gli schieramenti dell’elettorato, trasformando così la corsa alla Casa Bianca in una gara fra i peggiori, puntellata di invettive sui social che sono già di per sé un accenno di guerra civile.
Ultimamente gira una battuta su Joe Biden. Dice: «Non tutti i presidenti americani hanno avuto la sventura di un predecessore come Donald Trump». Che purtroppo non è la causa, ma solo una delle conseguenze della decadenza dell’America. Con il suo volto impresentabile.