Educazione. Adolescenti, quanto conta l’allenatore
Un noto proverbio africano recita: « It takes a village to raise a child ». Gli esperti della lingua africana discutono sulle diverse versioni dialettali del proverbio, ma il suo significato non cambia, ovvero «Per crescere un figlio serve un villaggio », serve che una comunità adulta si assuma la propria responsabilità educativa ed operi in sinergia per consentire ai figli, e alla generazione cui appartengono, di sviluppare la propria identità e costruire una vita dignitosa. Assumersi questa responsabilità educativa – che ci viene in tal senso ricordata già nel Vecchio Testamento – significa concretamente riuscire a sviluppare trame di fiducia, attivare un processo 'relazionale' costituito da qualcuno che dia fiducia a qualcun altro, degno di riceverla. Costruire un’alleanza adulta è sempre importante per favorire la crescita dei figli – propri o altrui – ma lo diventa ancora di più durante la fase adolescenziale, quando accanto ai genitori e agli altri familiari, i ragazzi e le ragazze iniziano ad uscire dal contesto della famiglia e a delineare il proprio spazio nel mondo e il proprio 'Sé' grazie all’incontro con altre figure significative al di fuori della famiglia.
Si gioca in questa fase la componente più difficile tra le tre della generatività ossia quella del 'lasciare andare': dopo aver generato e curato è importante consentire ai figli di trovare altre buone figure identificatorie. Non è certo un compito facile questo, non tanto e non solo per la naturale ambivalenza che ogni genitore sperimenta in merito ai movimenti di individualizzazione e differenziazione dei figli, ma anche perché, nella società contemporanea, il timore di molti genitori è legato alla sfiducia nei confronti dell’altro adulto, alla preoccupazione che l’altro non condivida gli stessi valori, che possa far del male al figlio. E talvolta l’altro non è pienamente consapevole dell’importanza educativa del proprio ruolo, sottovaluta l’importanza delle proprie azioni nel processo formativo dei giovani. Pensiamo ai docenti, alle figure religiose, agli allenatori sportivi.
E poi ci sono loro... gli adolescenti. Come vedono l’altro adulto? Cosa si aspettano da lei, da lui? Cosa della relazione con queste figure favorisce la loro crescita? Cosa invece li ferisce? A queste domande abbiamo cercato in questi anni di dare risposta con la ricerca longitudinale condotta dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo attraverso un campione rappresentativo degli adolescenti italiani. Nel terzo volume che rendiconta i risultati di questa ricerca, (Alfieri, Marta, Bignardi, 'Adolescenti e relazioni significative' - Vita e Pensiero 2020) dando spazio anche ad ambiti meno esplorati come quello sportivo. Se la funzione di alcune figure nello sviluppo adolescenziale è stata, infatti, oggetto di molteplici studi e ricerche empiriche, molto più recente in tal senso è quella rivolta alla figura dell’allenatore in ambito sportivo. Eppure sappiamo che la pratica sportiva è un’attività molto diffusa nei giovani. Dalla nostra ricerca, che ha coinvolto 6.250 adolescenti, è emerso che il 94,1% ha praticato o pratica attualmente sport. Si fa sport soprattutto in forma organizzata nelle società sportive del proprio territorio (è così per l’82,9% dei rispondenti).
Per ciascuno di questi giovani sportivi quindi va immaginato un allenatore. Ma chi è l’allenatore per i giovani, che significato e funzione riveste nella loro quotidianità? L’allenatore è innanzitutto qualcuno da cui imparare. Il processo di costruzione della relazione sembra così partire da una 'fiducia di base' che i ragazzi pongono a prescindere, in quanto l’allenatore viene considerato come una persona di riferimento. Solo in seguito, tramite l’esperienza vissuta, essi valutano se riporre effettivamente fiducia in questa figura o meno. Tre sono gli aspetti che sembrano a- vere in ciò un peso fondamentale. In primo luogo, la competenza sportiva: innanzitutto l’allenatore è credibile a qualsiasi livello se sa insegnare quella disciplina sportiva. Tutti i ragazzi, infatti, quando praticano sport vogliono migliorare, diventare bravi a calciare, a fare canestro, a nuotare. A prescindere del livello raggiunto e al confronto con gli altri componenti della squadra, percepiscono l’allenatore come la figura che aiuta a crescere. In secondo luogo, i giovani individuano la capacità dell’allenatore di dotare di senso quella esperienza nel tempo, dando la possibilità al ragazzo di stare in una relazione di fiducia reciproca – i ragazzi distinguono molto bene la sensazione di essere voluti e accompagnati a quella di essere mal sopportati, esclusi o usati.
Quando i ragazzi sentono attenzione verso il loro percorso sportivo generalmente sono disposti e capaci di comprendere scelte e gestire delusioni; viceversa, se avvertono scelte strumentali (allenatori che cercano la relazione con i più bravi o solo quando in virtù di un risultato da raggiungere) perdono motivazione e fiducia e non riescono più a dare il massimo, sentendosi esclusi dal processo di miglioramento, da una progettualità. Infine, viene evidenziata la capacità dell’allenatore di creare un buon ambiente relazionale, un buon clima di 'squadra' sostenendo la possibilità di sperimentare una concreta ma allo stesso protetta relazione tra pari. Questi sono i capisaldi su cui i giovani sentono o meno la possibilità di tessere le trame di fiducia a prescindere dal livello dello sport praticato e dal contesto. Ci sono storie in cui il buon intreccio tra i tre elementi porta a un rapporto importante tra ragazzo e allenatore: in questi casi, i ragazzi raccontano di potersi aprire maggiormente e cercare un confronto anche su questioni più personali o, in ogni caso, sentono che c’è qualcuno di importante: l’allenatore è un adulto diverso dal familiare cui potersi rivolgere. In altri casi qualcosa si rompe e la fiducia riposta all’inizio lascia posto a delusione e amarezza, spesso preludio dell’abbandono della pratica sportiva (non tanto di passaggio ad altro sport ma di abbandono puro).
Ciò che è evidente a conferma della letteratura recente è il concetto di relational coaching, cioè il fatto che il cuore del coaching sportivo è proprio la possibilità o meno di una relazione tra ogni allenatore e ogni singolo atleta o membro della squadra. La qualità di tale relazione è l’essenza del coaching e ne condiziona il suo successo; se si basa appunto sul rispetto, la fiducia e l’impegno reciproco sostiene tanto l’allenatore quanto gli atleti nel raggiungere gli obiettivi condivisi. In questo senso gli allenatori sono attori cruciali nell’influenzare l’esperienza sportiva dei giovani e di ciò che comporta in termini di loro divertimento, motivazione e sulla possibilità di sviluppare abilità sportive e senso di efficacia individuale e collettiva. Sullo sfondo, ma non da sottovalutare, il ruolo della famiglia che a volte facilita tale rapporto ma a volte lo complica e lo rende poco fertile. In sintesi, emergono dai raccolti figure di allenatori molto diverse: appassionati, tifosi, severi, maniaci della tecnicalità. Non c’è un allenatore ideale, ma allenatori più o meno veri e credibili a partire dal campo di gioco, che mette a nudo facilmente limiti e risorse anche degli adulti. Questi dati rimandano all’importanza delle competenze del ruolo dell’allenatore e dei percorsi formativi più adeguati (tema peraltro in agenda Ue), che scelgano di partire dalla pratica e dal metodo della specifica disciplina sportiva strettamente intrecciati con le competenze relazionali, evitando scissioni tra tecnica in senso stretto e aspetti valoriali che poi spesso non sanno ricomporsi.
Gozzoli è ordinario di Psicologia dei gruppi e delle organizzazioni all’Università Cattolica, Marta è ordinario di Psicologia sociale e di comunità