Libia sull'orlo della spartizione. L'America apre gli occhi. E l'Italia?
Guardiamo bene la carta geografica della Libia. Guardiamola bene, perché a differenza delle parole e dei proclami spiega molte cose. A parole, tutti i partecipanti all’intricato risiko libico si dicono disposti a collaborare per risolvere una crisi iniziata giusto dieci anni fa con l’intervento della Nato e degli Stati Uniti che portò alla caduta di Gheddafi e proseguita con la discesa in campo di nuove forze e nuovi (ma anche vecchissimi) interessi. Ma i giocatori di oggi non sono più quelli dell’epoca. C’è la Russia, la Turchia, ci sono gli Emirati del Golfo, c’è l’Egitto. E – colpevolmente defilata – c’è l’Europa, con Francia e Italia che si disputano frammenti d’influenza (soprattutto commerciale) senza che del groviglio libico si possa venire a capo. Basta vedere come sia caduta nel nulla la scadenza del 23 gennaio, che in base agli accordi di cessate il fuoco dell’ottobre scorso prevedeva il progressivo ritiro di tutte le truppe e milizie straniere presenti sul suolo libico dando l’avvio al processo di riconciliazione nazionale. Mozione reiterata nei giorni scorsi all’Onu dagli Stati Uniti, con la richiesta a Mosca e Ankara di «un’immediata rimozione dei mercenari stranieri e dei delegati militari che hanno reclutato, finanziato, dispiegato e sostenuto in Libia». Ma la voce della diplomazia – che pure rimane essenziale e indispensabile – non copre l’interezza del problema. Perché oggi la carta geografica della Libia racconta una realtà diversa. Le tre storiche aree del Paese, la Tripolitania, la Cirenaica, il Fezzan hanno drasticamente cambiato volto e confini. Tripoli, un tempo capitale prima del Regno e poi della Jamahiriya, è oggi poco più che una piccola enclave, nonostante sia sede del Gna, il governo di accordo nazionale di Fayez al-Serraj riconosciuto dall’Onu: tutto attorno, da Tobruk a Sirte, dal lungo crinale algerino allo spicchio di confine con la Tunisia fino alla linea confinaria con l’Egitto, quel che resta della Tripolitania è circondato dalla vasta area dominata dalle milizie di Khalifa Haftar, il generalissimo sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati (ma in parte anche da Macron), che pur avendo fallito grazie all’intervento militare turco la guerra-lampo con cui intendeva espugnare Tripoli, preme per una definitiva divisione del Paese, lasciando il Fezzan – area prevalentemente desertica e utilissima alla movimentazione e al passaggio di ogni tipo di traffici illegali – nelle mani di entità tribali delle quali di volta si sono serviti i vari signori della guerra. A riprova della scarsa efficacia degli accordi raggiunti un anno fa al vertice di Berlino, la carta della Libia ci rivela la presenza di almeno ventimila fra soldati e mercenari stranieri. Dai turchi, che hanno reclutato i loro giannizzeri in Siria fra i ribelli che hanno combattuto contro Assad, ai russi, che si appoggiano alla Wagner, società privata già vista in azione in Crimea nel 2014 e successivamente in varie parti del Medio Oriente e dell’Africa, con la sua falange di 'omini verdi' (in larga parte ex spetsnaz e membri del Gru). E proprio questi 'omini' si sono addossati recentemente il compito di allestire una lunga trincea, una Maginot di 70 chilometri che va da Sirte ad al-Jufra (la base aerea di memoria coloniale che ospitava l’aviazione italiana): una muraglia da nord a sud che virtualmente taglia in due la Libia e promette di estendersi anche oltre. Quasi a voler significare – il gesto è oltremodo simbolico – l’esordio di una nuova linea Sykes-Picot (l’accordo del 1916 fra Gran Bretagna e Francia all’indomani della dissoluzione dell’impero ottomano che ridisegnò – con gli esiti infausti che conosciamo – la carta geografica del Medio Oriente e le reciproche sfere d’influenza), questa volta disegnata non più con il righello e la matita copiativa, ma con le scavatrici dei contractors russi. Senza che peraltro le finalità siano diverse da quelle di un secolo fa: si ridisegnano muri e confini per restare, non certo per smobilitare. A lasciare campo libero è stata la sostanziale assenza degli Stati Uniti, che per quattro anni hanno consentito ai vari player regionali di giocare indisturbati le proprie partite. Ora l’amministrazione Biden sembra promettere un cambio di rotta. Un cambio auspicabile: senza il concorso americano, i due grandi rivali – Turchia e Russia – saranno sordi a ogni richiamo, compreso quello dell’Onu. E in Libia – Paese cruciale per la stabilizzazione del Mediterraneo – cambierà ben poco. La volontà di spartizione a due dell’ex 'scatolone di sabbia' è più che evidente, così come scoperte sono le mire geopolitiche in gioco. Un gioco – che per noi italiani oltre ai grandi e noti interessi economici comprende anche la lotta al traffico di vite umane – dal quale rischiamo per primi di essere esclusi. © RIPRODUZIONE RISERVATA