Il rapimento-lampo del premier libico Ali Zeidan, prelevato in circostanze ancora da chiarire da un manipolo di uomini armati a Tripoli nella sua residenza all’Hotel Corinthia e consumatosi nello spazio di un mattino non deve trarre in inganno: trattasi – conoscendo la Libia d’oggi e i suoi riti a mezza via tra giustizia tribale e bizantinismo – dell’ennesimo capitolo della lotta fra varie fazioni in lotta, cui con qualche sforzo è lecito attribuire un significato politico, forse legato al recentissimo blitz americano che ha consentito la cattura del dirigente di al-Qaeda Abu Anas al-Liby. Ma il sequestro di Zeidan, riconsegnato alle sue mansioni poche ore dopo, non è che uno dei molteplici aspetti della inesorabile
somalizzazione della Libia a due anni scarsi dalla morte di Muhammar Gheddafi e dalla "fine" della rivoluzione cominciata a Bengasi nel febbraio del 2011. Il termine
somalizzazione fu adoperato per la prima volta dal ministro degli Esteri Moussa Koussa, fedelissimo di Gheddafi ma fuggito a Londra fin dai primi bagliori rivoluzionari, a indicare il caos che avrebbe avvolto il Paese una volta venuta meno la mano ferrea del leader della Jamahiriya, prospettando una deriva simile a quella della Somalia, precipitata dopo la caduta di Siad Barre in una disputa sanguinosa fra i "signori della guerra", nella più totale assenza dello Stato di diritto e di un qualunque simulacro di giustizia.Il pronostico di Moussa Koussa non è molto lontano dal vero. Già a un anno dalla conclusione della rivoluzione il Paese era verticalmente scisso nelle due grandi aree mai tra loro conciliate, la Cirenaica e la Tripolitania, con il sud desertico, il Fezzan, che lentamente diveniva retroterra carovaniero di ogni sorta di commercio e scambio occulto, nonché corridoio incontrollabile del qaedismo che dilagava dal Mali al Kenya, lambendo il Congo e lo stesso Egitto e il Sinai.Oggi le condizioni sono ulteriormente peggiorate. A fronte di una nazione priva di forze di sicurezza, di esercito, di una magistratura efficiente dominano incontrastate le milizie e le brigate emanazione dei vari clan tribali: gli Zintan che presidiano l’aeroporto internazionale della capitale, i salafiti che occupano le caserme, i Warfalla e i nostalgici gheddafiani di Misurata che sorvegliano le zone costiere, i jihadisti di ogni bandiera che reclamano il "pizzo" per la protezione dei terminali petroliferi.Qualcuno ha provato a contarli: si reputa siano almeno 45 mila quelli in servizio permanente effettivo (in pratica sovvenzionati dal debolissimo governo centrale che ha tentato senza successo di inquadrarli in una sorta di corpo di polizia), ma ce ne sono almeno altrettanti completamente fuori controllo che razzolano indisturbati per il Paese. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: aeroporti spesso bloccati, ministeri, sedi di partito sedi diplomatiche prese d’assalto (su tutte, quella di Bengasi, dove nel settembre 2011 viene ucciso l’ambasciatore americano Chris Stevens e pochi mesi dopo scampa a un attentato il console italiano Guido De Sanctis, ma anche Francia e Russia ricevono debite attenzioni), e ultimamente anche il drastico ridimensionamento delle forniture petrolifere, che dal milione e seicentomila barili giornalieri di un tempo ora viaggia fra i 160 e i 500 mila di oggi.Vista da un’ottica italiana (ma vorremo dire europea, considerata la drammaticità del problema), al collasso politico libico va ascritta in buona misura anche la tragedia dei migranti che dai porti libici in mano alle mafie jihadiste giungono sulle nostre spiagge: le evanescenti istituzioni libiche non hanno potuto garantire né rinnovare l’antico accordo siglato con Gheddafi nel 2008 (5 miliardi di dollari in 20 anni in cambio del pattugliamento congiunto delle coste, d’ora in poi peraltro lasciato ai soli guardacoste libici) per contrastare i mercanti di morte e limitare il dramma degli sbarchi. Né ci illudiamo che questa
Somaliland che si affaccia sulla sponda sud del Mediterraneo possa rapidamente cambiare volto. Non a caso i più affilati fra i
think tank d’Oltreatlantico prefigurano nel prossimo decennio un possibile ridisegno dei confini geografici della Libia, della Siria e dell’Iraq e una loro ricomposizione regionale su basi etniche. L’unica, forse, che potrebbe rendere meno instabile il turbolento e persino esplosivo mosaico che si stende da Baghdad a Tripoli.