In molti hanno commentato ironicamente che, per tentare un colpo di stato, bisogna prima averlo, uno Stato. E, in effetti, lo scombinato tentativo compiuto venerdì scorso dal generale Khalifa Hifter a Tripoli, di cui si è in verità capito pochissimo, è solo la dimostrazione della fragilità di ogni istituzione centrale in di una Libia che, a tre anni dalla rivoluzione, si trova sempre più in preda al caos.Esattamente un anno fa, a Tripoli, per i festeggiamenti dello scoppio della rivoluzione, si respirava un’aria di ottimismo e sicurezza che suonavano in effetti eccessivi. Entusiasmi mal riposti, come hanno dimostrato poi gli eventi. La transizione dal quarantennale regime di Gheddafi si è dimostrata più difficile del previsto. Innanzitutto, perché il colonnello lasciava in eredità un Paese di fatto privo di strutture istituzionali degne di tal nome: la jamahiriya libica incarnava il governo diretto del popolo, ossia l’arbitrio di Gheddafi e dei suoi accoliti, che hanno sempre impedito la creazione di un’amministrazione efficiente. Ricostruire su basi così labili non era certo semplice. Ma anche la nuova élite politica non ha fatto molto meglio: incapace quando non corrotta, litigiosa e frammentata, essa ha visto la sua azione arenarsi via via in un labirinto di veti incrociati. Il Parlamento, oggi pencolante verso i movimenti islamisti, cerca da mesi di sfiduciare il debolissimo governo del premier Ali Zeidan, senza tuttavia riuscire a convergere su di un sostituto. L’esecutivo ha mancato tutti gli obiettivi iniziali e soprattutto non è riuscito a porre un freno al proliferare alla "macedonia tuttigusti" di milizie (islamiste, secolari, localiste, semplici gruppi criminali) che spadroneggiano nel Paese, né a rafforzare le fragili e demotivate Forze armate nazionali.L’anarchia e il caos hanno portato anche alla drastica riduzione dell’export petrolifero, dato che le milizie bloccano le attività di estrazione e di stoccaggio per ottenere sempre più soldi. Nella Cirenaica, da sempre insofferente del controllo di Tripoli, a complicare ulteriormente la situazione, si aggiungono le ambizioni autonomiste e le vendite di contrabbando dell’oro nero. Di fatto, ogni mese Tripoli vede svanire miliardi di dollari in mancati incassi. Per ogni altro Paese sarebbe la catastrofe. Non in Libia: da un lato, minori proventi significano soprattutto meno sprechi e furti di denaro; dall’altro lato, il budget statale è pura finzione: i ministeri non hanno la capacità di spendere i soldi loro assegnati, così che i tagli finanziari riducono più che altro gli avanzi non utilizzati.Ma, evidentemente, questa è una magra consolazione. Nel 2014, o la Libia invertirà la rotta, o il rischio della sua frantumazione sarà davvero quasi inevitabile. Fra un paio di giorni si terranno le elezioni per un comitato costituzionale di sessanta saggi che dovrà riscrivere la Costituzione, passaggio fondamentale per andare a nuove elezioni (il presente Parlamento è in regime di
prorogatio). L’esito di queste elezioni, su cui regna molta confusione, ci dirà se la Libia è in grado di riprendere il cammino verso un sistema più democratico e stabile. Per certo, i libici da soli non sembrano in grado di risollevarsi. Ma la comunità internazionale non pare troppo propensa a farsi coinvolgere in questo tentativo. Con poche eccezioni, fra cui ovviamente l’Italia, che ai primi di marzo ospiterà una conferenza internazionale proprio per rilanciare la stabilizzazione del Paese. Un passo difficile ma necessario, questo di Roma, per non ritrovarsi davanti a casa uno Stato fallito che faccia da perno di traffici illeciti di ogni tipo e da rifugio a gruppi terroristici.