Fuggito dal gulag. Corea del Nord, lettere al regime più chiuso
C’è un globetrotter particolare, un fragile giovane di aspetto estremoorientale, claudicante quando scende dalla sella, che in queste settimane sta percorrendo l’Europa in bicicletta con la determinazione di consegnare due semplici lettere. Mittente: lui stesso; destinatari: il padre detenuto in un campo di lavoro e il capo del regime nordcoreano Kim Jong-Un; tramite: le rappresentanze diplomatiche della Corea del Nord nelle capitali e nelle sedi Onu del Vecchio continente.
Instancabile e tenace promotore di consapevolezza nel mondo riguardo il suo Paese di origine nella morsa di una dittatura spietata e apparentemente sorda alla pressioni internazionali, Shin Dong-hyuk è noto anche in Italia. In particolare dopo la pubblicazione del libro Fuga dal Campo 14: la straordinaria odissea di un uomo, dalla Corea del Nord alla libertà in Occidente del giornalista e scrittore statunitense Blaine Harden (pubblicato da Codice Edizioni), che racconta l’esperienza di Shin in uno dei peggiori gulag nordcoreani, dove ha passato molti dei suoi 33 anni, insieme ai genitori condannati per il tentativo di fuga dal Paese di uno zio negli anni Cinquanta. Sono stati 21 gli anni trascorsi in prigionia, sino alla fuga durata un intero lustro verso la Corea del Sud e, da lì, verso gli Stati Uniti diventati base della sua volontà di aprire al mondo le porte prima quasi sigillate dell’immenso gulag nordcoreano. Non un’esperienza di seconda mano, ma diretta e brutale, quella di Shin, che nel Campo 14 dovette assistere all’uccisione del fratello e della madre (forse) da lui stesso denunciati, azione inumana frutto di un’esperienza rinchiusa in recinti e muri, attanagliata dalla paura e dalla delazione, definita da un decalogo la cui ultima regola indica senza appello che «la punizione per chi viola le regole del campo è la morte».
Un’esperienza devastante da ricordare al punto che lo stesso Shin, in seguito, ha rivisto in alcuni punti il suo racconto della prigionia, forse perché il fardello della memoria era troppo pesante. Quanto descritto nel volume diffuso in una trentina di Paesi è stato negato da Pyongyang «come propaganda nemica», ma la vita e l’orrore del Campo 14, dove vivono 15mila detenuti presso la città di Kaechon, sono confermati da rilevamenti satellitari, registrazioni, testimonianze di dissidenti e fuggiaschi; sono parte integranti del dossier terrificante che ha portato il regime della Corea del Nord sul banco degli accusati alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, a subire condanne e sanzioni internazionali, ultime quelle Usa proclamate nei giorni scorsi che per la prima volta prendono di mira direttamente Kim Jong-Un, coetaneo di Shin, erede di una dinastia comunista di nome e dispotica nei fatti, primo carceriere dello Stato-prigione. A lui ha indirizzato una missiva dal tono intimo e accorato: «Mio padre è Shin Gyung-Seup. Due anni fa è comparso in un video rilasciato dal suo governo. L’ultima volta che l’ho visto è stato poco prima della mia fuga. Solo dieci anni dopo sono riuscito a rivederlo, nel video che avete trasmesso. (...) Se c’è un crimine che ho commesso, è quello di essere nato in un campo di concentramento, e di esserne fuggito. (...) Nessuno dovrebbe avere il potere di impedire o ostacolare il diritto di vedersi di un padre e di un figlio e dunque faccio appello al governo della Corea del Nord affinché mi sia consentito rivedere mio padre. Chiedo anche che sia consegnata a mio padre la lettera che allego. (…)».
Una lettera in cui esprime il dolore per le sofferenze che con ogni probabilità sono state inflitte al genitore dopo la sua fuga. «Devi aver subito molto a causa mia. Anche in questo momento so bene quali torture stai sopportando, e il mio cuore soffre. Non ti ho mai dimenticato, né dopo la fuga, né in tutti i dieci anni seguenti. Non solo perché sentivo la tua mancanza, ma perché posso solo immaginare le torture fisiche e mentali che stai passando per colpa mia. Pensavo che tu non fossi più in vita». «Ma poi – prosegue Shin figlio (che usa anche la versione alternativa del suo nome, Shin In-Geun) – sei apparso nel video che è stato trasmesso dal governo della Repubblica Democratica di Corea (il Nord), ed è stato per me un gran sollievo. Quando eravamo insieme nel campo di prigionia non mi ero mai reso conto di quanto tu sia importante per me. (...) Padre, anche se so che è difficile, ti prego resisti ancora un po’. Proprio in questo momento sto chiedendo ufficialmente al governo nordcoreano di darmi il permesso di rivederti. Non c’è nessuna ragione al mondo per la quale dovrebbero rifiutare l’autorizzazione a farci incontrare. È semplicemente naturale che due persone vogliano vedersi, e per un figlio voler vedere il padre. È un desiderio basilare, un diritto. Per favore, non morire. Se resti vivo credo fermamente che ci rivedremo!».
Lo scorso 2 gennaio, Shin Dong-hyuk ha ricordato gli undici anni dalla sua fortunosa fuga dal campo, unico a riuscirci finora, ma per lui non è ancora il tempo di dimenticare. La sua vita, lontana dalla normalità, seppure sia riuscito a costruirsi una famiglia nell’esilio, segnata dai traumi psicologici, dalle mutilazioni e dalle cicatrici della detenzione – anche dall’amarezza provocata dall’incredulità per le sue rivelazioni e dalle accuse di discrepanze nelle sue testimonianze – ha ancora come scopo principale la denuncia. «Raccontare la mia esperienza non contribuirà al cambiamento della Corea del Nord. Tuttavia ho la speranza che la mia testimonianza sarà utile quando organizzazioni internazionali e diplomazie chiederanno a Kim di assumersi le proprie responsabilità». Una pressione che ha un senso, anche se sembra cadere nel vuoto. «Il dittatore crede che il campo di concentramento sia un’arma molto efficace per creare il senso di terrore nel popolo ed eliminando la forza degli oppositori», ricordava Shin in una sua intervista in occasione dell’uscita del suo libro in traduzione italiana nel settembre 2014. E aggiungeva: «Dobbiamo capire che i nordcoreani non hanno mai preso contatto con la libertà e con l’idea democratica. Alla caduta della monarchia cento anni fa, il popolo coreano finì subito nelle mani dei giapponesi. Nel 1948, alla fine della colonizzazione da parte dell’impero giapponese, i nordcoreani divennero vittime del comunismo propagandato dal dittatore Kim Il-Sung e da allora, nonostante il passaggio del potere al figlio e poi al nipote il regime non ha mai allentato la sua presa, creando un sistema di paura e sospetto che si auto-alimenta». Il tour e le lettere consegnate alle ambasciate sono un monito anche all’Occidente affinché non dimentichi il dramma della Nord Corea dove a essere repressa è ogni forma di dissenso così come ogni forma di credo religioso, il cristianesimo in particolare.