È molto probabile che gli uomini forti della giunta militare di Myanmar, decidendo di mettere fine agli arresti domiciliari e all’isolamento totale di una donna piccola ed esile divenuta un’icona della lotta pacifica per la democrazia, pensino di trarre qualche vantaggio in termini d’immagine agli occhi del mondo, senza correre troppi rischi sul piano della stabilità interna. Preannunciata da tempo, la liberazione di Aung San Suu Kyi è avvenuta puntualmente sei giorni dopo una consultazione elettorale cui ha potuto partecipare un’opposizione addomesticata, in vista di una dittatura più morbida dove ai militari s’affiancheranno per la prima volta anche dei civili. Hanno calcolato ogni mossa i generali di Yangon ma, a quanto pare, ignorano le lezioni della storia. Era il 1986, quando venne liberato il più illustre dissidente dell’Unione Sovietica, Andreij Sacharov. Confinato in esilio interno nella città di Gorkij insieme con la moglie, lo scienziato inventore della bomba atomica divenuto poi il paladino dei diritti umani nell’Urss venne rilasciato su decisione di Gorbaciov. Nelle intenzioni del leader della perestrojka doveva essere un segnale d’apertura e di cambiamento del rigido sistema comunista bisognoso di riforme. Cinque anni più tardi, Gorbaciov fu costretto a lasciare il potere e l’Unione Sovietica cessò di esistere.Qualcosa del genere era successo pochi anni prima nella Polonia del generale Jaruzelski. Dopo aver messo fuori legge Solidarnosc e incarcerato i suoi dirigenti, il capo della giunta militare polacca, nel 1982, ridiede la libertà a Lech Walesa, considerato ormai dal regime niente più che un «privato cittadino». Finì, come tutti sanno, con la caduta del comunismo in Polonia nell’estate del 1989, prima breccia nel Muro di Berlino, che sarebbe crollato di lì a pochi mesi.Ma gli esempi non si limitano ai regimi comunisti. Nel 1990, in Sudafrica, il leader dell’African National Congress, Nelson Mandela, dopo 26 anni passati in prigione tornò in libertà e avviò un negoziato con il presidente De Klerk destinato a portare alla fine del regime dell’apartheid e alle prime elezioni libere del 1994.Sembra essere una regola: ogni volta che un regime totalitario decide di rifarsi un look più rispettabile, liberando il leader dell’opposizione democratica, ecco che si scava la propria fossa. Forse è per questo che a Pechino i dirigenti del Partito comunista aprono le porte ai capitalisti, ma le tengono ben chiuse quando si tratta di un dissidente incarcerato, Liu Xiaobo, insignito quest’anno del Nobel per la Pace (come tutti gli ex prigionieri politici sopra citati). E sarà interessante notare cosa succederà nei prossimi mesi a Cuba, dopo la liberazione dell’attivista per i diritti umani Guillermo Fariñas e di altre decine di dissidenti. Se c’è qualcosa che finora ha distinto il regime birmano in mezzo alle tante dittature ancora presenti nel mondo è stato il suo carattere particolarmente violento e feroce. Dalla spietata uccisione di migliaia di manifestanti nel 1988 fino alla sanguinosa repressione delle proteste guidate dai monaci buddisti nel 2007, la giunta militare ha brutalizzato in tutti i modi l’antico Paese della Birmania fino a cambiarne il nome in Myanmar.E se oggi finalmente ha deciso di liberare la mite ed apparentemente fragile Suu Kyi è solo perché si ritiene più forte che mai. Una mossa calcolata che, alla luce della storia, potrebbe rivelarsi un azzardo suicida per uno dei regimi più oppressivi del mondo. La libertà è contagiosa, come la speranza.