Trentamila matrimoni in meno in due anni. Se non è allarme rosso, quasi ci siamo. Sintomo di una crisi sociale e promessa di un ulteriore choc demografico. Segno di un Paese inequivocabilmente in affanno e che non solo denuncia i limiti di una congiuntura economica sfavorevole, ma mette in mostra le cicatrici di una mutazione antropologica che non può rassicurare chi abbia a cuore il destino di una comunità che solo attraverso la tenuta sociale può costruire un futuro di necessaria coesione e ragionevole benessere. Coesione e benessere, concetti e obiettivi condivisi a parole e regolarmente smentiti dai comportamenti individuali di massa, dalle distrazioni culturali, dalle indifferenze valoriali e dalle permanenti incertezze e latitanze della politica nel dare una buona volta sostegno ai nuclei familiari. Un mix di azioni, inazioni e omissioni che ha determinato i risultati di oggi. Esiti che portano la firma di tanti attori sociali. Ma procediamo con ordine. I dati forniti dall’Istat sul biennio 2009/2010 non lasciano scampo. Nella loro crudezza sono persino sconcertanti: nel biennio il calo dei matrimoni è stato del 6%, mentre negli ultimi 20 anni è stato mediamente dell’1,2%. Un autentico tonfo che merita di essere indagato su molti fronti. Innanzitutto quello economico che viene indicato come il principale fattore di dissuasione. Un numero sempre maggiore di coppie giovani posticipa la data delle nozze oppure opta per la convivenza, spesso anche con il beneplacito dei genitori che vedono così allontanarsi gli oneri economici del matrimonio. Nessuno può ragionevolmente negare che una larghissima e prolungata inoccupazione, particolarmente grave nelle fasce di età fra i 19 e i 34 anni, porta con sé l’allontanamento di ogni tipo di assunzione di responsabilità, matrimonio compreso. Ma tutto questo ancora non basta, non è sufficiente per spiegare quanto è accaduto in questi ultimi due anni. È come se una generazione si fosse autosospesa dall’assunzione pubblica di responsabilità rispetto a un vincolo (matrimonio religioso o civile) che privato non è. Non fosse altro che per le evidenti ricadute demografiche, ma anche per il mancato esercizio educativo e persino per il deficit nella costruzione del prodotto interno lordo. Dunque, queste scelte e queste rinunce vanno meglio indagate. Dispiace dirlo, ma tanta cattiva pubblicistica sul matrimonio e sulla famiglia sparsa a piene mani in questi ultimi decenni, ma un dibattito politico e una progettualità legislativa sballati che per lunghi mesi – e guarda caso proprio alla vigilia dell’infausto biennio rilevato dall’Istat – hanno potenziato al massimo quella propaganda negativa e alternativa, prima o poi dovevano portare i loro frutti velenosi. Sono stati serviti subito. E non ci si può illudere che una ventata di ottimismo economico possa invertire il trend. È come se la crisi economica (oggettiva) avesse fornito il migliore alibi (soggettivo) all’altra crisi, quella educativa e valoriale e di lucidità politico amministrativa, che aspettava solo l’occasione per manifestarsi con tutta la sua forza dirompente. Potremmo anche osservare che c’è stato un tempo in cui le condizioni oggettive di vita degli italiani e delle italiane erano forse ancora più ardue delle attuali, eppure ci si sposava. Non c’era crisi economica, o guerra, che potesse fermare i giovani di allora. Cosa li differenziava dai giovani di oggi? Di sicuro li muoveva una speranza più forte di quella che alberga nel cuore delle nostre giovani generazioni. Ma soprattutto li muoveva la certezza di un destino, di un progetto di vita al quale erano chiamati, di un orizzonte esistenziale tendenzialmente stabile. Ovvero, avevano interiorizzato il matrimonio e la famiglia come valori. In un mondo nel quale i valori erano spendibili e unanimemente riconosciuti come tali. Aver lavorato alla demolizione dei valori, nel tempo del benessere, ci porta ad essere più poveri e meno forti nel tempo della crisi. Speriamo che la lezione sia finalmente compresa.