La sfida è ripartire dai due grandi paradossi. L’Europa si è fermata tra Londra e Atene
Quando si esulta a Bruxelles per la nuova legge approvata in Grecia sui pignoramenti della prima casa e allo stesso tempo si concede una lunga proroga alla Gran Bretagna per decidere come uscire dall’Unione nel migliore dei modi significa che l’Europa si è fermata tra Londra e Atene, allargando la Manica fino allo stretto di Corinto.
Il Paese ellenico pur di restare nell’euro è stato sottoposto e si è assoggettato a una cura spietata, il Regno Unito, non sapendo come uscire dal labirinto in cui si è cacciato dopo il referendum che ha sancito la vittoria del Leave, gode invece di una moratoria concessa dal Consiglio Europeo che stride con quelli che sarebbero i criteri di condivisione e mutualità.
In questo strabismo delle istituzioni comunitarie c’è un solo punto di contatto tra questi due Stati, che mostra da una parte l’incapacità di chi guida la Ue di essere flessibile nella gestione delle crisi e dall’altra la difficoltà degli esecutivi nazionali di tradurre in pratica i voleri degli amministrati: in entrambe le nazioni si è votato. Solo che l’esercizio della democrazia diretta attraverso il voto popolare, nel 2015 per dire 'no' al memorandum della Troika e nel 2016 per decidere se fosse ancora conveniente restare nell’Unione, alla prova dei fatti è stato disatteso dalla democrazia rappresentativa, in Parlamento.
Il governo Tsipras ha proseguito come se nulla fosse nel cammino di lacrime e sangue imposto da Commissione, Bce e Fmi, mentre l’esecutivo di Theresa May a tre anni dalle urne ancora non ha dato corso alla Brexit voluta dai sudditi della regina Elisabetta. Ma i punti di contatto si fermano qui. Le sofferenze cui è stata sottoposta la Grecia, rea sì di aver truccato dieci anni fa i suoi conti pubblici, ma punita fino all’inverosimile per le colpe di una classe politica scriteriata e le responsabilità della finanza franco-tedesca che ha promesso rendimenti impossibili sui bond del Pireo, rappresentano il più grande fallimento politico dell’Eurozona.
Dal 2010 a oggi il Pil greco si è ridotto del 24%, la disoccupazione è raddoppiata, Atene ha ricevuto aiuti per 288 miliardi e continuerà comunque a pagare interessi fino al 2060, mentre metà dei cittadini soffre di problemi di salute mentale, mancano le medicine, i suicidi sono aumentati del 40%, il finanziamento degli ospedali si è dimezzato e sono quadruplicati i senza tetto, che a questo punto con la legge sul 'ratto della casa' (quella dove si abita) non potranno che aumentare. La domanda non è retorica, ma letterale: ne è valsa la pena? Occorre chiedersi se tutti questi sacrifici per restare nell’euro hanno avuto un senso o se i greci sono state vittime di un esperimento fatto in laboratorio per testare l’irreversibilità della moneta unica.
L’Europa di oggi a più velocità che si affaccia ai primi venti anni di Unione monetaria e si appresta ad andare al voto il 26 maggio, è quindi perfettamente rappresentata dal caso ellenico e non può sperare che il caos Brexit e i rimorsi degli inglesi possano diventare un insperato spot europeista da contrapporre al dramma greco. L’uscita, se mai ci sarà, della Gran Bretagna dalla Ue è un evento molto diverso da quello che sta capitando ad Atene. Il governo conservatore di David Cameron, dopo aver raggiunto un accordo molto favorevole con la Commissione per restare nell’Unione, di certo più conveniente di quello che Westminster ha rigettato per uscire, ha precipitato il Paese in un referendum che ha spaccato – e probabilmente spaccherebbe ancora – la cittadinanza a metà.
A un britannico su due importa poco che la City perda la sua egemonia sul mercato finanziario (9.000 miliardi di asset bancari e 2.500 miliardi di capitalizzazioni), le stanze di compensazione che fanno macinare miliardi di commissioni e l’indubbia capacità di influenzare l’intera normativa in materia di Borsa e prodotti da collocare. E gli interessa forse anche meno che possano diventare più cari i tanti beni che arrivano dall’altra parte del Mare del Nord in virtù di possibili barriere doganali. Senza dire del ritorno di una frontiera concreta tra Irlanda del Nord e Repubblica irlandese, il vero scoglio che di fatto ha fatto cadere ogni possibile intesa tra Theresa May e Jean-Claude Juncker. Se questo mezzo tsunami verrà per un po’ congelato – compresa la partecipazione alle consultazioni europee, che al danno d’immagine aggiungerebbe una beffa grottesca per tutti – vincerà un dato storico, anch’esso stabilito da un referendum negli anni Settanta: l’Ue di oggi è nata proprio da quella lontana scelta che agganciò l’Isola al continente. Da quella consultazione per il 'sì' si è passati con gli anni e per effetto della globalizzazione e dell’impoverimento di milioni di persone a quella dei 'no'.
Alla Costituzione europea, alla dittatura della Troika, all’Unione Europea. Un’escalationche mette sul banco degli imputati decine di europolitici ed euroburocrati che non hanno saputo interpretare lo spirito dei tempi che vivevano, salvo essere poi travolti dagli eventi. Per arrivare a una serie di riforme condivise dell’architettura comunitaria, che tenga insieme la voglia d’Europa dei greci e l’autonomismo di metà abbondante degli inglesi, bisogna perciò non solo conoscere i reali costi della partecipazione all’euroclub ma anche prendere atto del corto circuito che c’è stato tra sentimento popolare e rappresentazione da parte delle famose élite della realtà.
In fondo è proprio quello che è capitato in Grecia e in Gran Bretagna, dove gli elettori non si sono fatti convincere da campagne che mostravano la bontà dei frutti del Trattato di Roma e di quello di Maastricht e una volta consultati hanno bocciato l’azione dei propri governi, con una differenza però fondamentale, quasi una congiura del destino, che ha il sapore di una grande ingiustizia. Londra ha scelto liberamente il caos e temendone le conseguenze ha allungato il calendario di dodici mesi; Atene per evitarlo non ha ancora smesso di soffrire pur volendo fermamente restare nella moneta unica. Da questi due grandi paradossi, che hanno calamito l’attenzione di gran parte dell’opinione pubblica, presa nel braccio di ferro tra sovranisti e europeisti, deve provare a ripartire l’Europa dopo le prossime elezioni di maggio. Perché nessuno accetterà più di essere lasciato indietro.