Il direttore risponde. Mai un figlio è soltanto «niente»
Il 23 dicembre 1978 Paola ha partorito, ma Davide era morto, la placenta si era staccata prima del parto. Davide era un bellissimo bambino con tanti capelli neri e ricci, aveva le mani, le dita, le unghie, gli occhi, le ciglia… tutto. Perché era morto? Perché era accaduto questo nella nostra famiglia? Perché all’antivigilia di Natale? Che festa, che luce, che pace avremo conosciuto? Con tutte quelle domande pesanti nel cuore, mio fratello Alessandro si è caricato nella sua Fiat 500 (aveva comperato i coprisedili nuovi per portare Davide a casa dall’ospedale) la piccola bara bianca con Davide dentro. E lo abbiamo portato in chiesa dove il fratello di Paola ha presieduto l’Eucaristia per dire grazie a Dio papà del grande dono che ci aveva fatto donandoci Davide. Poi lo abbiamo portato in cimitero. Dentro la sua piccola bara c’era anche un libretto di canti, perché Davide è il cantore di Dio. Paola non c’era perché ancora ricoverata in ospedale.
Per Davide è stata costruita una semplice tomba, in travertino, con scritto il suo nome e una data: quella della sua nascita tra noi e in cielo. I suoi cinque fratelli, nati dopo di lui, grazie anche a quella tomba, sanno bene che Davide è il loro primo fratello. Non è mai stato un «grumo di materia», ma Davide. Mentre Paola non è mai stata una donna «che non è riuscita a portare a termine il suo dovere di animale al servizio della specie», ma sempre la mamma di Davide e poi di Elena, Marco, Elisabetta, Martina e Anna e quel titolo – "mamma" – nessuna scrittrice potrà mai toglierlo, come nessuna scrittrice potrà mai togliere o infangare la dignità di nessuno dei suoi figli, vivi o morti che siano.
La morte di mio nipote Davide per me è stata un grande "problema", tanto da farmi dubitare di Dio, della sua promessa e del senso del mio mettermi al suo servizio come prete (già da 9 anni ero in seminario in ricerca vocazionale). Ho pianto, mi sono arrabbiato, ho protestato, ho cercato, ho "sfidato" Dio finché il 23 dicembre 1984, sei anni dopo la morte di Davide, da poco ordinato diacono, ho amministrato per la prima volta il Battesimo a dei bambini. Mentre versavo l’acqua sulla testa di quei bambini donando loro la vita di fede, non ho potuto non piangere di gioia e ringraziare Davide, il cantore di Dio, che con quella sua morte aveva fatto rinascere la mia fede e la capacità di donarla.
Conosco il dolore e il dramma della morte e il laborioso itinerario per accoglierla come "sorella", ma non capisco la necessità di insultare la vita di altri come in questi giorni ha fatto, negando loro la dignità di persone, la signora Lidia Ravera. Che non è stata la sola. Nessun «cattolico credente e praticante» può fare questo senza insultare Gesù che si è identificato con ciascuno di noi.
don Carlo Velludo, Treviso