«Anche raccomandare è da mafiosi». C'è del vero, ma la mafia fa assai peggio
Gentile direttore,
ho letto con attenzione gli articoli sulla mafia con i quali lo scorso mese di marzo Antonio Maria Mira, giornalista che stimo e che mi dà spesso spunti di riflessione sugli argomenti che tratta, ha accompagnato il cammino verso e dentro la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia. Mi ha specialmente colpito una piccola e secca frase verso la fine del commento del 21 marzo: «Ciascuno con la sua responsabilità». Ora, io penso che l’origine di gran parte dei guai causati dalla mafia, sia proprio la mentalità mafiosa che si esprime in molti modi e non solo al Sud. Uno di questi modi, certamente non il più grave, è l’istituto – tipicamente italiano – della “raccomandazione”. Siamo sicuri per esempio che tutti i giornalisti che in televisione, alla radio e sui giornali, si sono scagliati contro i babbei che hanno reagito alle parole sante di don Ciotti con scritte ingiuriose sui muri, occupino quei posti esclusivamente per merito e non abbiano avuto qualche spintarella? Siamo sicuri che anche tra i prelati non ci sia chi ha qualche volta detto una “parolina” per raccomandare un pupillo? Nei nostri ospedali, tutti i primari hanno raggiunto l’apice della carriera soltanto perché migliori di tutti gli altri medici? Questo malcostume non è privo di conseguenze per tutti i cittadini italiani, in primis per i giovani capaci e preparati che, senza conoscenze “giuste”, si vedono scavalcati da gente con scarsa preparazione, ma adeguatamente appoggiata. Faccio un esempio: l’Alitalia, compagnia aerea eccellente fino a una quindicina di anni fa, è fallita per l’incapacità dei troppi dirigenti strapagati che come prima qualità manageriale avevano quella di avere i cosiddetti “Santi in Paradiso”. Mi creda, avrei apprezzato che in quel «Ciascuno con la sua responsabilità» venissero inclusi tutti quelli che elargiscono o usufruiscono di “raccomandazioni”. O per lo meno che si dicesse che questo modo di fare fa parte dell’essere mafiosi.
Laura Tumaini, Aosta
Capisco il suo punto di vista, gentile signora Tumaini, credo che contenga un pezzo di verità e, in ogni caso, apprezzo lo spirito che sostiene la sua riflessione. Ma credo che sia difficile leggere il messaggio contenuto in quel secco e forte richiamo del mio collega Mira alla «responsabilità» anti-mafia di «ciascuno» - politici, magistrati, forze dell’ordine, insegnanti, lavoratori, imprenditori, sindacalisti, professionisti, intellettuali, sacerdoti… - come esclusivo e non come inclusivo. Inclusivo di persone e fronti di impegno nella battaglia per la giustizia e la legalità. Anch’io, come tanti, sono profondamente convinto che solo se è inclusiva, cioè non esclusivamente riservata ai "super-buoni", ai "già-salvati", agli "immacolati", la sfida contro le mafie può essere vinta. Ed è "sul confine" che la affronta e la si vince, riducendo ai minimi termini e smontando nella vita concreta delle persone - ogni giorno, e ogni giorno di più - il potere mafioso, la sua prepotenza, le suggestioni che esercita.
Giovanni Falcone è uno dei tanti coraggiosi servitori dello Stato che hanno fatto, e continuano a fare, molto per sconfiggere la mafia, anche facendoci capire che cosa è. Ricordo spesso uno frase nella quale credo ci sia una verità scomoda e utilissima in questa benedetta impresa civile: «Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale». Si tratta di una distinzione assai importante, perché non confonde, non assolve e fortemente sprona. Non tutto è criminalità mafiosa, ma ci sono modi di pensare - e come lei scrive, gentile signora - «di fare» che non sono criminali eppure possono rappresentare (e in certi contesti effettivamente rappresentano) un regalo ai mafiosi, ai seminatori di malavita. In questo senso, e credo di interpretare il suo punto di vista, il netto rifiuto della logica della "raccomandazione" è traducibile in un secco no a quella visione deteriore e furbesca per cui la competenza, la dedizione, l’empatia, l’onestà, la lealtà, il buon diritto e il vero bisogno - nel lavoro o in qualunque altra situazione - varrebbero meno del sostegno di una rete di "amici" e di "amici degli amici". Su questo siamo certamente d’accordo: c’è una grande pulizia mentale da promuovere e ci sono tante energie sane da preservare, smettendo di mortificarle e cominciando a liberarle davvero.
Detto questo, mi sento semplicemente di aggiungere che vorrei, proprio vorrei - mi creda - che il cancro della criminalità organizzata che si fa anti-Stato fosse prima di tutto una questione assimilabile a quella delle "raccomandazioni", che non germinano sempre da arroganze e malizie, ma a volte soltanto dalla generosa (e magari imbarazzata) speranza di fare del bene a persone meritevoli eppure umiliate e tenute o scaraventate ai margini dalla loro giovane età o da vicissitudini personali e lavorative. Purtroppo, con cruda verità, il problema delle mafie è invece e innanzi tutto un problema di sistematica sopraffazione delle persone e di manomissione (se non di integrale rimozione) di ogni legge, cioè di ogni "misura" legale, morale e spirituale del vivere civile, ovvero del senso autentico dell’essere membro responsabile di una comunità. Si tratta, dunque, di un’ingiustizia assai più grave, che forse può anche cominciare con la ricerca di una "spintarella" o manifestarsi attraverso di essa, ma che non coincide affatto con questa e ha ambizioni ben più oltraggiose, impositive e distruttive. Lavoriamo, ciascuno con la sua responsabilità, con ambiziosa determinazione per un società libera dalle mafie. E nella quale, più modestamente, il "parlar bene" di una persona non diventi mai ingiusta raccomandazione.