Il direttore risponde. Lettera dal dolore e dalla speranza di un poliziotto che non cede al nulla
Caro direttore,
siamo in guerra. Non è solo una delle tante guerre, ma è "la" guerra. Di noi "sbirri" che siamo in prima linea. Di giorno e di notte. Al caldo e al freddo. All’asciutto e al bagnato. Chi guidando una volante a rischiare in prima linea e chi dietro a una scrivania a fornire gli strumenti a chi sta fuori. Chi dietro a uno scudo stretto accanto ai suoi compagni mentre attorno scoppia l’inferno, letteralmente, e chi lungo un’autostrada a macinare centinaia di chilometri a cercare di fermare folli strafatti prima che sterminino intere famiglie. Spesso (quasi sempre) inconsapevoli di cosa stiamo facendo. Noi che siamo i primi a capire quanto siamo inadeguati. Sempre stanchi, arrabbiati, col groppo in gola, piangendo (più spesso di quanto si creda), urlando e anche, talvolta (o dovremmo dire spesso), bestemmiando contro quel Bene ci sembra così strano e distante e contro quel mondo e quella società che, nonostante stiamo dando la vita per proteggerla, troppo spesso ci vomita contro un (immotivato) odio. Ma sempre pronti al sacrificio, a rialzarci a non cedere un centimetro.
L’altro giorno un nostro amico e collega è caduto. L’ennesimo caduto di questa guerra. Il primo pensiero è stato: "Questa cosa non ha alcun senso. Non può essere". Il male, per una volta sembrava vincere. Una scelta terribile la sua, un gesto che urla al Cielo, che grida dal profondo, che ci ha lacerato il cuore con una ferita feroce, non può essere senza senso. Perché sappiamo che inesorabilmente il Bene vince sul male, lo schiaccia. Con dei tempi e delle modalità non nostre, ma vince. In guerra ogni esercito ha le sue sentinelle che, in silenzio con dovere e dedizione, mettono in pericolo la propria vita, offrono la propria vita, per i propri compagni. Sono le prime che, quando il nemico colpisce, cadono sotto i suoi colpi. È forse il loro sacrificio vano? Certo che no. È proprio il loro grido di allarme che permette ai compagni di svegliarsi, prepararsi a fronteggiare l’assalto e contrattaccare. Questo nostro amico è stato per noi questa sentinella. Penso di poter dire che col suo grido, con la ferita che ha aperto nel nostro cuore, ci ha svegliati e ridestati. Dal suo gesto (che in sé sarebbe male, solo un folle direbbe che è un bene) però può nascere un bene.
Diceva un altro amico pochi giorni fa: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto Signore mi trascina, mi provoca al suo disegno». E queste circostanze possono essere «un segno [a volte] così ottuso [la fatica del vivere, lo squallore della vita quotidiana, le situazioni drammatiche, le cose più apparentemente inumane], così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirsi delle circostanze». Questa è tuttavia la modalità attraverso cui il Bene mi chiama per non farmi cadere nel nulla. Ora sta a noi. Questa è la nostra sfida. Questo nostro amico ci ha ridestati. Ora siamo noi che dobbiamo resistere a questo assalto per poi contrattaccare. Mi auguro, ed auguro a tutti, che la ferita aperta, questo cuore sanguinante che ora ci ritroviamo, non si rimargini. Che la domanda di senso (sul lavoro, sui rapporti, sugli affetti... sulla vita) che ha fatto nascere, come una fiamma, non si spenga mai ma venga, da questa ferita, continuamente alimentata e cresca, fino ad "incendiare" ogni aspetto della nostra vita. Se faremo e saremo tutto questo, allora anche quel sacrificio non sarà stato vano.
Giovanni Portolani