Opinioni

La lettera dei vescovi ai sacerdoti. Grazie a ognuno e all'uno di esempio

Davide Rondoni mercoledì 9 giugno 2010
La cosa peggiore è quando ti riducono a una categoria. Quando non esisti più come persona ma esiste solo la categoria a cui qualcuno vuole ridurti. Specie quando ti vogliono imputare qualcosa. E dicono, che so: i rossi. Oppure: i gialli. Oppure: i neri. Oppure: i preti.In questi mesi ne abbiamo sentite sui preti. Notizie brutte, orrende. E poi soprattutto un sacco di chiacchiere, di battute grevi. Di offese generalizzate. Ben oltre il perimetro dei fatti, e del dolore dei fatti. Ben oltre l’amore per la verità, anzi spesso in spregio della verità. È stato così, ne abbiamo sentito di tutti i colori. Offese. Ingiurie. Pronunciate pure con sussiego e espressione finto-intelligente in salotti tv o sui giornali. Accuse generalizzate, perché se si doveva stare e ragionare sui casi singoli, sulle faccende particolari, si doveva smettere il facile mestiere del moralista. E vedere i casi singoli di ogni genere, non solo del genere preso a bersaglio. Insomma, si doveva generalizzare l’accusa sui preti per nascondere una realtà orrenda che invece riguarda tutti. E che riguarda l’idea di giustizia che abbiamo per ciascuno di noi, per la vita di ciascuno di noi.E ora finalmente qualcuno, invece di accusarli genericamente, li ringrazia uno per uno, i preti. Ma non come categoria, come persone, una a una. I preti italiani. Il don Luigi e il don Beppe. Il don Maurizio e il don Gabriele. Uomini con quei nomi a cui il "don" messo davanti, da segno di rispetto e deferenza, si voleva far diventare segno di sospetto e di marchiamento. Per fortuna però – Avvenire l’ha già scritto – la gente conosce bene i suoi preti. E ora c’è chi dice pubblicamente, esemplarmente, grazie a questi uomini. A ognuno di loro. Per l’opera che compiono. L’opera che si vede di dedizione alle persone. E per l’opera che non si vede mai del tutto, di dedizione a Dio. Per le due opere che sono una. Che hanno il medesimo fuoco. I due gesti che sono uno. Come i due lati del comandamento evangelico: ama Dio e il prossimo tuo.Non fan questo i preti? E in cambio di cosa lo fanno, verrebbe da chiedersi? Un tempo, forse, c’era qualche privilegio. Insomma, poteva esserci qualche convenienza a fare il prete. O almeno così dicevano le battute del popolo. Ora invece la stragrande maggioranza di loro tira la cinghia, ricava battute e risolini nei salotti bene e sui media, passa i giorni a misurarsi con realtà d’impegno, di difficoltà e di degrado da cui troppi altri – soprattutto tra chi ha potere – restano distanti. E magari neanche uno straccio di pubblico ringraziamento.Per questo le parole della lettera dell’Assemblea dei vescovi italiani che ringrazia e incoraggia i preti italiani non sono retorica. Non sono frasi di circostanza come troppe se ne sentono. Non si tratta di un comandante che rincuora le sue truppe in un momento difficile. Non sono le parole che i vertici di un’associazione di categoria rivolge ai suoi affiliati Anzi, sono parole rivolte a ciascuno, non alla categoria. È un ringraziamento speciale. Che pesa in modo speciale in questo momento. E perciò rincuora. Come dice bene il cardinal Hummes nelle pagine che seguono, infatti, l’esempio di uno – che si è dato, nel suo servizio, il nome di Benedetto – si è accompagnato a quelle parole per tutto l’anno sacerdotale che sta terminando. Nella lettera della Cei non viene indicato un programma generico, come per ottenere un’adesione generale della categoria. Perché per tutto l’anno la storia e la fede dei semplici ci ha indicato l’esempio di uno, così che ciascun sacerdote posi gli occhi suoi, il suo personale cuore, la sua personalissima storia davanti a quell’esempio concreto, ai gesti e alle parole di uno di loro. Perché nella vita reale la vita di un uomo non riprende coraggio e forza grazie solo alle parole. Ma perché vede uno, un uomo, che lo invita con l’esempio, e che è sulla stessa strada.