Don Lorenzo Milani. Lettera a una professoressa, un «pugno» che resta attuale
Quando Lettera a una Professoressa uscì alle stampe a fine maggio 1967, don Lorenzo Milani, il Priore, come lo chiamavamo noi, stava ormai molto male e su consiglio di tutti si era trattenuto a Firenze presso la mamma. A turno noi ragazzi lo assistevamo di giorno e di notte, ma benché molto debole non trascurò niente affinché la Lettera si diffondesse. Non potendo scrivere di persona, aveva incaricato noi ragazzi di segnalare l’uscita del libro a una serie di amici fra cui giornalisti, insegnanti, sindacalisti. Un messaggio semplice, scritto per suo conto, su una cartolina. All’inizio, la stampa non si occupò molto di Lettera a una professoressa, ma il dibattito divampò un mese più tardi quando il Priore morì. Dovendo occuparsi di questo prete così straordinario, i giornalisti furono costretti a leggere la sua ultima opera scritta assieme ai suoi ragazzi e tutti reagirono come se avessero ricevuto un cazzotto allo stomaco. Chiunque la leggesse non poteva fare a meno di immedesimarsi nel Gianni scartato o nel Pierino figlio di papà e benché indirizzata a una professoressa, ognuno la sentiva come indirizzata a se stesso. Una lettera personale a cui ognuno reagiva con ira, amore, commozione, mai con indifferenza, a seconda della posizione sociale occupata e del percorso di riflessione effettuato in ambito politico e morale.
Nel cinquantesimo della pubblicazione, molti si chiedono se Lettera a una professoressa sia ancora di attualità. La domanda è lecita perché la società a cui la Lettera fa riferimento non c’è più, almeno nella nostra parte d’Europa. Era una società rurale, mentre quella di oggi non è neanche più industriale: è una società terziaria dominata dall’informatica, dalla comunicazione, dalle biotecnologie. Dunque da un punto di vista economico e tecnologico Lettera a una professoressa appartiene a un’altra era geologica. Ma da un punto di vista sociale e politico è ancora di estrema attualità perché il panorama è mutato di poco. Per certi versi è addirittura peggiorato. Fondamentalmente la Lettera è un atto di accusa contro l’atteggiamento selettivo della scuola, addirittura classista verso i poveri. Un’opposizione messa in atto attraverso il sistema dei voti, del tempo breve, delle bocciature. Forse oggi si boccia meno nell’arco della scuola dell’obbligo, ma la richiesta di Lettera a una professoressa non è semplicemente quella di tenere ogni ragazzo in pari con i propri compagni, bensì di garantire a ciascuno il sapere di cui ha bisogno per essere cittadino sovrano. Da questo punto di vista non possiamo dire di avere fatto molti passi avanti.
Anzi siamo andati indietro considerato che il taglio alle spese operato in nome del debito ha ridotto il numero di insegnanti e aumentato il numero di alunni per classe. Cosa può sperare di imparare il bambino senegalese o albanese col suo italiano stentato in una classe di 25 alunni? Come diceva padre Balducci, le Barbiane del mondo sono ancora molte e stanno anche dentro la nostra Europa. La novità è che non si trovano più nei campi, ma nelle periferie urbane fra le famiglie immigrate e disoccupate. I loro bambini continuano ad avere grandi difficoltà nello studio a causa delle condizioni abitative, della babele di lingue in cui sono inseriti, della mancanza di famiglie alle spalle in grado di seguirli. Finché la scuola non abbandonerà l’atteggiamento del tribunale che giudica e non entrerà invece in quello dell’ospedale che si prende cura delle creature più fragili, Lettera a una professoressa conserva tutta la propria ragion d’essere.
La battaglia contro la discriminazione è un caposaldo della Lettera, ma sarebbe un errore interpretarla solo come una difesa corporativa delle fasce più deboli. In realtà, è una battaglia più ampia per i diritti, altro tema di grande attualità. I diritti fanno parte della tradizione liberale, che però li confina all’ambito politico e giuridico. Locke, ad esempio, ne citava solo tre: libertà, proprietà, vita. Col crescere della pressione popolare il concetto di diritto si è esteso ad aspetti sociali ed economici come l’acqua, l’alloggio, la sanità e giustappunto l’istruzione. La grande affermazione è che tutti dobbiamo accedere a questi servizi, anche se non possiamo pagarli, perché attengono alla dignità umana. Di colpo, così, si è affermata la gratuità e si è imposta la comunità, la sola che fornisce servizi, non attraverso la compra-vendita, ma la solidarietà. Questa prospettiva, però, danneggia il mercato perché ogni servizio affidato alla comunità è un’occasione di guadagno in meno per il settore privato. Di qui l’offensiva neoliberista per convincerci che i bisogni, compresi quelli fondamentali, non si soddisfano per diritto, ma per merito. Come dire che solo i forti, i veloci, gli intelligenti, i ricchi possono soddisfare tutti i bisogni che vogliono, mentre gli altri devono rinunciare.
Di sicuro non è un caso se la scuola si sta orientando sempre di più verso la meritocrazia rendendo di estrema attualità Lettera a una professoressa che già 50 anni fa criticava i voti, le interrogazioni, le promozioni, le bocciature, come espressione del principio del merito contro quello del diritto. La Lettera afferma senza mezzi termini che la scuola deve essere organizzata per garantire a tutti il diritto al sapere. Ma per quale scopo? In linea con l’ideologia dominante la scuola propone come fine la carriera, ma poiché l’egoismo non fa parte dello spirito giovanile, la motivazione della carriera non attecchisce, e la scuola è costretta a usare lo spauracchio dei voti e delle bocciature per spronare i ragazzi a studiare. A Barbiana ci veniva proposto di studiare per tutt’altri motivi, primo fra tutti la dignità personale che significa essere sempre in grado di decidere noi cosa fare o non fare, se necessario andando contro corrente, perfino contro la legge quando è sbagliata. L’antitesi della dignità sono le mode, l’adeguamento al comportamento di tutti solo per stare nel branco. Per questo Lettera a una professoressa chiede alla scuola di difendere i ragazzi dalle mode, non mettendoli sotto una campana di vetro ma insegnando loro a pensare e a non fare mai niente prima di averlo passato al vaglio della propria testa. A Barbiana il Priore ci spronava costantemente a pensare e diventava furioso di fronte a chi non sapeva argomentare le proprie scelte.
A Barbiana ci veniva anche insegnato che «il problema degli altri è uguale al nostro», per cui «uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica». Perciò Barbiana era una finestra costantemente aperta sul mondo tramite la lettura del giornale e l’incontro con le numerose persone che venivano a farci visita. Con un obiettivo: renderci cittadini sovrani. Ed è proprio questa la finalità che Lettera a una professoressa assegna alla scuola in perfetta sintonia con Piero Calamandrei che definiva la scuola «organo costituzionale». A significare che non può esistere democrazia senza una scuola che mette tutti in grado di capire la realtà, di esprimere la propria opinione e di capire quella altrui. Esattamente gli stessi contenuti rivendicati dalla Lettera che fa della lingua il fulcro di una scuola libera, democratica e popolare.