Opinioni

Sanità. Esiste ancora tra i giovani la vocazione a fare il medico?

Silvio Garattini mercoledì 30 ottobre 2024

Il liceale che fa il concorso per entrare nella scuola di medicina dell’università ha veramente una vocazione? Sente questa formazione per realizzare la sua professione come un invito, una predisposizione, una passione? Nel concetto di vocazione c’è una componente religiosa che in qualche modo equipara il ruolo del sacerdote a quello del medico che si occupa della sofferenza del suo paziente mettendo a disposizione una competenza che deve essere associata all’assistenza, allo “stare vicino” che in qualche modo riflette la sollecitudine divina. La vocazione del medico non può essere disgiunta da ciò che desidera l’ammalato.

Papa Benedetto XVI diceva: «Il malato vuole essere guardato con benevolenza, non solo esaminato: vuole essere ascoltato, non solo sottoposto a diagnosi sofisticate; vuole percepire con sicurezza di essere nella mente e nel cuore del medico che lo cura». Nel discutere la vocazione del medico occorre anche ricordare che il suo ruolo è considerevolmente cambiato. La medicina era fondamentalmente paternalistica – “Me lo ha detto il medico e quindi va fatto” – ma è diventata oggi difensiva perché gli ammalati hanno a disposizione internet e avranno a disposizione molto presto l’Intelligenza artificiale. Oggi discutono con il medico, spesso pretendono ciò che ritengono sia meglio per la loro salute. Anche la medicina è cambiata perché non è più possibile che un medico faccia tutto da solo.

La sua vocazione si deve integrare con la vocazione di altri medici perché la collaborazione è divenuta essenziale non solo negli ospedali ma, anche, nel territorio, dove è necessario attivare le “case di comunità” per garantire la disponibilità di un ambulatorio 7 giorni alla settimana per almeno 8 ore al giorno, cosa possibile se 2030 medici lavorano insieme avendo a disposizione personale infermieristico e segretariale, nonché apparecchiature per analisi. La vocazione è una scelta che deriva da un desiderio interiore, ma deve essere coltivata e liberata da legami e difficoltà. Ciò è purtroppo molto aleatorio perché l’ammissione alla scuola di medicina contempla prevalentemente domande su aspetti culturali e storici anziché basarsi sulle motivazioni, sull’etica e sugli aspetti empatici dell’attività medica. Inoltre la scuola di medicina non è certo un “seminario”, o una palestra in cui si eserciti la vocazione.

In generale si devono ascoltare in modo passivo le lezioni dei docenti, mentre non c’è nessun allenamento a pensare all’ammalato ed esercitarsi nell’ottimizzare il rapporto con gli altri, nel sapere i sacrifici a cui si andrà incontro, nel capire ciò di cui ha bisogno l’ammalato. Il Servizio sanitario nazionale dovrebbe sostenere la vocazione medica, mentre invece scarica su medici e infermieri una fastidiosa burocrazia, anziché cercare di rendere disponibile più tempo per gli ammalati e per lo studio. Esistono poi altre situazioni che competono con la vocazione. Ad esempio, gli stipendi di medici e infermieri italiani sono fra i più bassi d’Europa e ciò determina la fuoriuscita dei medici dal servizio pubblico per approdare al privato o all’estero dove si è pagati meglio e dove è più facile realizzare e sostenere una famiglia. Occorre anche ricordare che a causa della denatalità abbiamo oggi un piccolo numero di diciottenni: ne abbiamo 400mila, quando vent’anni or sono ce n’era un milione. Troppo pochi per le vocazioni mediche e sacerdotali quando esiste competizione per le professioni considerate migliori come quelle afferenti all’informatica o alla bioingegneria.

Va anche considerato che oggi regna più interesse per medici e infermieri nei confronti di quelle discipline mediche che non richiedono attività notturne e nei giorni festivi, come l’oculistica e la dermatologia, a scapito dell’anestesia, della medicina intensiva o palliativa. C’è forse minor tendenza al sacrificio e più egoismo. Quanti sono i giovani medici disposti a rinunciare a serate con amici per studiare, con la preoccupazione di non sbagliare il trattamento dei propri pazienti.

È molto più facile accettare l’informazione che deriva dal mercato della medicina, accettare viaggi ai congressi e ricerche cliniche ben retribuite dall’industria farmaceutica o diagnostica, anziché pretendere una informazione indipendente. È più facile usare i farmaci che convincere la persona ad attuare la prevenzione attraverso buone abitudini di vita. Certo non sono frutto di una vocazione e un buon esempio i numerosi medici che fumano, bevono alcol, sono in sovrappeso o addirittura obesi. Per fortuna le eccezioni – i medici che hanno ancora la vocazione – esistono, ma sono pochi. Si devono moltiplicare. Ma questo dipende dalla volontà di chi lascia governare la medicina dal mercato anziché dall’etica del servizio.

Fondatore e Presidente Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri