Opinioni

«Fine vita» tra fede e ragione. L’etica contro l’ideologia tutela il ruolo dei medici

Stefano Ojetti venerdì 4 ottobre 2019

Caro direttore,
era una sentenza annunciata e facilmente prevedibile, Cper come era stata già formulata la legge 219 del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), quella che la Corte costituzionale ha pronunciato sull’aiuto al suicidio, questione fin’ora normata dall’art. 580 del Codice penale che prevedeva pene tra i 5 e i 12 anni di carcere per i trasgressori. La Corte, in attesa di un inevitabile intervento del legislatore, ha aperto alla non punibilità subordinandola al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda (la legge 219 appunto).

Risulta invece incomprensibile il fatto che l’articolo 32 della Costituzione, sempre citato dai fautori dell’autodeterminazione in materia di salute, venga menzionato ed applicato solamente nella sua prima parte: «Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ma mai nella sua seconda ancor più importante: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» e quale è il massimo rispetto della persona umana se non quello della salvaguardia della vita? I punti fondanti di tale sentenza si basano sul riscontro di queste condizioni: presenza di patologia irreversibile, condizioni di sofferenza fisica o psicologica intollerabile, trattamenti di sostegno vitale come unico strumento di sopravvivenza del malato, capacità del malato stesso di prendere decisioni libere e consapevoli. Su tali condizioni credo che qualche considerazione di carattere medico-scientifico vada fatta. La pratica clinica insegna infatti che pazienti con prognosi infausta spesso sopravvivono inspiegabilmente per svariati anni, così come al contrario altri sopravvivono solamente pochi mesi nonostante la spettanza di vita sia, secondo i protocolli, di alcuni anni.

Allora qual è il criterio di irreversibilità clinica rispetto alla reale sopravvivenza se, non raramente, ci si trova di fronte a tali inspiegabili situazioni? Parlare di dolore fisico incoercibile risulta oggi obsoleto, quando attualmente attraverso le cure palliative e, all’occorrenza, la sedazione profonda si tengono sotto controllo, con grande beneficio per il paziente, patologie dolorose che fino a qualche tempo fa era inimmaginabile poter affrontare. L’annosa problematica relativa al sostegno vitale, come «unico strumento di sopravvivenza» sollevata peraltro già nelle Dat, equivale a dire essenzialmente che se l’idratazione può essere interrotta provocando il decesso, essa allora può essere paradossalmente equiparata alla stessa alimentazione che, ovviamente, se sospesa provoca egualmente la morte.

La problematica diventa complessa quando si fa cenno alla sofferenza psicologica. Si può soffrire psicologicamente infatti per le più svariate motivazioni non sempre correlate a una patologia fisica. Si può essere depressi per un crac finanziario, per un divorzio, per problematiche legate alla famiglia o a malattie dei propri cari e le ragioni possono moltiplicarsi all’infinito. Anche il malato neoplastico va tipicamente in depressione, compito del buon medico è quello di supportare psicologicamente e aiutare il paziente anche con terapia farmacologica. In tutte queste condizioni di depressione anche senili risulterà in un prossimo futuro anche lecito, se richiesto, l’aiuto al suicidio? La problematica reale che inevitabilmente si apre quindi è quella etica contrapposta a quella ideologica dell’autodeterminazione: il corpo è mio e ne faccio quello che voglio. È poi eticamente accettabile che uno Stato si preoccupi più di trovare strumenti e risorse per assicurare una 'buona morte' piuttosto che al contrario assicurare una vita dignitosa anche nella malattia a chi vuol vivere? Basti pensare ai malati non autosufficienti che quei genitori anziani, spesso con pensioni minime e senza aiuti, non riescono più anche fisicamente ad accudire in casa.

La realtà è che risulta molto più facile ed economicamente conveniente per lo Stato affrontare il problema del fine vita 'staccando la spina' piuttosto che col 'prendersi cura', che significa farsi carico della persona al crepuscolo della propria esistenza con ovviamente tutta la fatica e gli oneri che ciò richiede: saper ascoltare, saper lenire la sofferenza e assicurare alla famiglia tutta quella assistenza medico-infermieristica che il sofferente richiede. Quattro sono essenzialmente le prestazioni sanitarie che bisogna garantire alla persona nel momento più difficile della propria esistenza per accompagnarlo a una morte dignitosa: l’idratazione per non condannare il paziente a morire di una orribile morte quale la sete, il controllo del dolore certamente raggiungibile oggi con tutti i presìdi – farmacologici e no – messi a disposizione dalla moderna medicina, l’assicurare una buona ventilazione con ossigenoterapia ed eventuali broncoaspirazioni se indicate, e da ultimo ma non meno importante l’igiene della persona, assicurando in tal modo al sofferente il sollievo, la dignità e il rispetto del proprio corpo.

La sentenza sulla non punibilità a determinate condizioni del suicidio assistito rischia di aprire le porte all’eutanasia, offrendo un incentivo di fatto a situazioni e comportamenti (anche familiari) che potrebbero portare nel tempo ad agire negativamente nei confronti di un congiunto. In una tale problematica certamente non può e non deve essere coinvolta la figura del medico, il quale deve essere libero di operare secondo scienza e coscienza in accordo con l’art. 17 del codice deontologico « il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte» .

A tale proposito il Santo Padre, nel recente incontro avuto con la Federazione nazionale dei medici e odontoiatri, ha ribadito che «la medicina, per definizione, è servizio alla vita umana». Proprio di questo si tratta: non si può chiedere agli operatori sanitari di contravvenire a ciò che è nel Dna della professione medica e cioè donare salute anziché dispensare la morte; tutto ciò può essere riassunto nella scritta sul portale dell’Hotel Dieu, il più antico ospedale di Parigi: «Se sei malato vieni e ti guarirò, se non potrò guarirti ti curerò, se non potrò curarti ti consolerò».

Vicepresidente nazionale Amci (Associazione medici cattolici italiani)