Opinioni

Questione democratica ed educativa. Dopo le Regionali, lessico dell'odio da disarmare

Milena Santerini* mercoledì 3 giugno 2015
Caro direttore, al termine della campagna per le elezioni regionali vale la pena di tornare sul tema del linguaggio politico usato da alcuni partiti e ripresi da vari media. Certi toni usati per affrontare la questione delle migrazioni e dei diritti delle minoranze, tra cui i rom, sono stati inaccettabili.  In particolare, a seguito del drammatico incidente stradale di Roma, in cui è morta la signora Corazon, quarantenne madre di famiglia, abbiamo assistito a un crescendo di insulti, incitazione alla violenza, aggressività verbale e fisica di cui sono stati oggetto tutti i rom. Come se il fatto che la vittima fosse un’immigrata filippina scongiurasse il rischio di essere tacciati di razzismo se si inveiva pesantemente, com’è stato, contro gli investitori (tra l’altro, a quanto pare, minorenni).  Da tempo si denunciano l’involgarimento e la violenza usati in particolare da gruppi populisti, ma allo stesso tempo si è tollerato che alcuni politici in tv, sui media e nelle piazze lanciassero espressioni gravissime; il risultato è che stiamo assistendo a una vera e propria istigazione all’odio razziale che deve essere fermata, come lo sarebbe negli altri Paesi europei. Incitare a investire, aggredire o cacciare un intero gruppo di persone, uomini, donne, bambini di varia età, condizione sociale, provenienza è niente meno che odio etnico. Siamo troppo abituati a uno storytelling politico, a una narrazione alimentata da ondate emotive che il web contribuisce a diffondere e incattivire. Dobbiamo respingere l’odio sistematico contro una categoria di persone individuata per “razza”, etnia, religione, colore, cultura. La campagna di “Avvenire” insieme a “Famiglia Cristiana” e alla Fisc «Anche le parole possono uccidere» così come la campagna «No Hate Speech» del Consiglio d’Europa hanno bene individuato l’impegno da assumere: anzitutto un’autoregolazione e codici di condotta che gruppi politici, stampa, social network devono adottare e che tutti dobbiamo impegnarci a rispettare e a far rispettare, senza cedere all’inerzia e all’impotenza. Sì, «le parole possono uccidere» le persone, la loro dignità e integrità e la coesione sociale di un Paese.  Siamo consapevoli che la comunicazione sociale e politica è particolarmente difficile in tempi di scetticismo e ostilità. Ma i cittadini hanno diritto a essere informati in modo chiaro su alcuni nodi che i gruppi populisti usano per speculare, come dati e cifre corrette sull’immigrazione o sulla presenza rom nel nostro Paese. Non dimentichiamo che l’Italia è tristemente prima nell’Ignorance Index  su 14 Paesi. Questo, per esempio, significa che gli italiani pensano che gli immigrati siano il 30% della popolazione, mentre sono il 7%, ritiene che il 20% degli immigrati sia musulmano, mentre lo è il 4%, e così via. Una ricerca scientificamente accurata nel 2008 ha dimostrato che su 40 casi di presunti rapimenti di bambini da parte di rom nessuna sottrazione era realmente avvenuta e nessuna condanna era seguita dopo la denuncia, ma tutto questo è caduto nel silenzio. Media non indipendenti sfruttano questa ignoranza e la nutrono, alimentano la violenza.  È chiaro che, oltre al radicale cambiamento della comunicazione, occorre un massiccio investimento culturale e educativo per dire un «basta all’odio», che passi per un controllo sui fornitori di servizi Internet, un coinvolgimento dei giovani nelle scuole e nelle Università, la formazione di insegnanti e educatori e di nuovi operatori di pace che in tutte le sedi riportino e radichino nelle persone, e soprattutto nei più giovani, il dovere della verità e l’impegno comune a vivere insieme. *Deputata Pi-Cd e presidente Alleanza parlamentare contro razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa