Suicidio assistito. L'errore di lettura della sentenza della Consulta
Nuova forzatura sul suicidio assistito in Friuli Venezia Giulia La vicenda di Anna, la donna affetta da sclerosi multipla che si è uccisa con l’assistenza del servizio sanitario nazionale, con una sorta di “tutto compreso”, medico e veleno, contiene un dolore che non ci va via dal cuore. Sul piano soggettivo di una resa, di una speranza spenta consegnata alle ultime parole desolate, d’una persona morta, non ci sentiamo di giudicare, pur consapevoli della dimensione tragica del suicidio e del suo oggettivo disvalore. Ma la ferita della morte cercata ci si volge contro nell’interpello sulla nostra incapacità di consolazione per chi dispera, noi pure fuggiaschi dalla vita per pungolo di dolore.
Ogni morte è un lutto, un pianto. Ma qualcosa vi si deve aggiungere, se fra i commenti ci sono voci di esultanza, come per un traguardo raggiunto, una vittoria, un diritto conquistato. In uno sguardo così c’è un abbaglio. Il pensiero che il suicidio sia l’ultima libertà, e che anzi sia un diritto che può esigere l’aiuto d’altri a provocare la morte, sconta nell’odierno dibattito alcuni errori giuridici essenziali. Il primo è quello di dire che la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale ha «dettato le norme del diritto al suicidio assistito e il protocollo per la sua esecuzione».
Non è così, non è una sentenza dedicata agli aspiranti suicidi, ma al delitto di chi aiuta gli aspiranti suicidi ad ammazzarsi. E dice chiaro che quell’aiuto è criminale e resta criminale. Però ritaglia, dentro la generale incriminazione, una feritoia di non punibilità dell’aiutante, per le speciali circostanze in cui avviene: cioè «se il suicida sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Il discrimine finisce qui; fuori di qui è delitto. E del resto la Consulta non avrebbe potuto neppure occuparsi del problema inverso, (cioè il diritto del suicida a esigere l’aiuto mortale, con l’obbligo assurdo di qualcun altro di farlo) essendo la sua funzione quella di giudicare la norma penale denunciata. Anzi, la Consulta ha tenuto stretta la feritoia aperta nel codice penale, chiarendo che le quattro condizioni richieste per non punire l’aiutante del suicida devono essere accertate prima. Così nasce la necessità di un passaggio istituzionale, pubblico, autorevole, obiettivo.
Ma si tratta di un compito testualmente definito come “verifica” delle condizioni tutte elencate, e delle “modalità” di esecuzione, cioè come binario da cui gli aiutanti del suicida non possono deragliare per andare esenti da pena. E qui finisce. Non dice che il suicidio diventa una prestazione del servizio nazionale, né che esso debba fornire il farmaco letale e la macchina di somministrazione e il medico tanatologo. La fuga in avanti di alcune Regioni, peraltro in un campo di competenza statale, sembra ammiccare a un tema molto diverso da quello dell’art. 580 giudicato dalla Consulta.
Un tema caro ai soci Coscioni, la morte volontaria medicalmente assistita; senza bisogno d’altro aiuto. Così se mettiamo in fila le morti di Mario (Marche), di Gloria (Veneto) e di Anna (Friuli-Venezia Giulia) ci si disegna davanti agli occhi una progressiva dilatazione d’errore nella lettura della sentenza del 2019. Prima la sola verifica diagnostica; poi la macchina e il farmaco letale; ora il servizio completo, una sorta di “suicidio terapeutico”. E che dire di altra progressione che sembra affacciarsi, se si forzano le parole della sentenza sui “trattamenti di sostegno vitale” assimilandovi i gesti di quotidiano soccorso alla disabilità fisica cronica? Non così significa la parola, copiata di peso dall’art. 1 comma 5 della legge 219 del 2017.
La stessa Corte costituzionale avverte che il paradigma coerente con la scriminante introdotta è la stessa dipendenza da quei trattamenti la cui interruzione voluta dal paziente cagionerebbe la morte. Resta un ultimo groppo in gola, tra i sentimenti umani che la storia di Anna ci ha mosso. È un quesito più pungente del cordoglio, perché interroga la cura, la capacità di cura, la prossimità del prendersi cura, persino la promessa di cura speciale fatta legge nel 2010, e l’amarezza d’una sconfitta. Forse non è più solo questione di norme, è in gioco un pensiero che si va corrompendo sulla funziona stessa dello Stato, se è vero, come rammenta la Corte costituzionale n. 50 del 2022, che «il dovere dello Stato [è] di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».