L’Italia prima e dopo Berlusconi. L’eredità impossibile
Sarà come sempre la Storia a giudicare il leader, a soppesare l’eredità di un grande imprenditore diventato premier con la poderosa spinta del suo impero mediatico, ma soprattutto grazie alla straordinaria capacità di intercettare prima degli altri, prima di tanti, il senso comune e i cambiamenti in atto nel Paese.
Già da tempo era percepibile come vi fosse un “prima” e un “dopo” Silvio Berlusconi per la politica italiana, per l’immaginario collettivo e il discorso pubblico. Oggi l’addio a un protagonista assoluto, il più noto e controverso della scena italiana negli ultimi trent’anni, ci rende forse consapevoli di come, in fondo, ci sia un “prima” e un “dopo” Silvio Berlusconi per tutti. Il Cavaliere voleva cambiare l’Italia e per questo si è prima sintonizzato pienamente con gli italiani. Dibattendosi fra pulsioni innovative e natura conservatrice, era pronto a scuotere il Paese dal torpore con una “rivoluzione liberale” che tuttavia, ai suoi stessi occhi, non ha prodotto i frutti sperati. Dopo la carica iniziale, la spinta si è presto esaurita e nonostante l’opportunità di realizzarla, per ben quattro volte, da presidente del Consiglio, la rivoluzione alla fine non c’è stata.
Nelle vesti del premier, ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Berlusconi ha invece affrontato da leader eventi di portata globale: dalla lotta al terrorismo internazionale alla crisi finanziaria globale scoppiata negli Stati Uniti con la bolla dei mutui subprime. Silvio Berlusconi ha dunque segnato la storia della Repubblica e sicuramente rivoluzionato la politica, ridisegnandone i confini nazionali e contribuendo a ridefinire quelli europei. Ci è riuscito facendo leva sull’abilità di governare le dinamiche del consenso, grazie al suo rapporto diretto, disintermediato con gli elettori, la vera novità del suo stile comunicativo e politico. E lo ha fatto imprimendo alla rappresentanza quella personalizzazione estrema – pure in questo, un anticipatore – che costituisce in generale il presupposto della popolarità, ma anche la matrice di ogni deriva populista. Perché Silvio Berlusconi era un uomo che si nutriva degli sguardi dell’altro, desideroso di piacere a tutti. Era forse anche questo il motore della sua generosità, unanimemente riconosciuta.
Ed è stata la chiave del suo successo, prima imprenditoriale e poi politico, con l’inevitabile corollario di una polarizzazione estrema della scena pubblica, schierata per decenni e ancora fortemente divisa fra berlusconiani e antiberlusconiani. Una polarizzazione che ha attraversato anche il mondo cattolico e che Berlusconi viveva con sincera incredulità, percependosi e collocandosi nel parterre politico come moderato e come uomo-squadra, desideroso di unire e non dividere.
Aveva quella caratteristica, il Cavaliere, che gli americani chiamano “unicità di obiettivo”. La capacità, cioè, di concentrare ogni sforzo, ogni azione pubblica e privata, sul raggiungimento del risultato. Ed è proprio nella commistione fra “casa” e “palazzo” nell’esercizio del potere che si trova l’origine delle fibrillazioni impresse al sistema, dalle vicende giudiziarie agli scontri istituzionali, fino agli scandali che hanno accompagnato la vita della Seconda Repubblica e segnato la sua lunghissima vicenda politica. Si fa per questa ragione effettivamente fatica, oggi, a immaginare l’Italia senza Berlusconi, a prefigurare quanto possa essere diversa.
Ed è ancora più difficile prevedere quale possa essere il vero lascito politico, oltre alla semplificazione del sistema, a individuare l’eredità immateriale della sua esperienza pubblica. Perché il Cavaliere, per diciassette anni centro indiscusso della politica italiana, oltre che un grande leader si è sentito da subito e sempre un fondatore. Un fondatore che fino all’ultimo minuto ha rifiutato l’idea di uscire di scena e consegnare ad altri il senso della missione che si era dato e che gli italiani, per tre volte, nelle urne gli hanno affidato.
Al suo eccezionale percorso politico, vissuto sempre in primissima persona, è mancata probabilmente la dimensione generativa del lasciare andare, dell’affidare ad altri la realizzazione del suo progetto e sogno. A un visionario come Berlusconi è mancata in fondo la visione lunga propria dello statista. Non è stato in grado di trovare e consegnare a un vero erede il capitale politico accumulato in trent’anni di esercizio del potere. Con l’eventualità – e anche il rischio per la pluralità – che ora, quel capitale, possa andare disperso o capitalizzato da eredi mai designati.