Mobilitazione. L'eredità della «Manif pour tous» una promessa di riconciliazione
La mobilitazione di dieci anni fa ha segnato uno spartiacque per la società e la politica transalpina. Nella foto d'archivio il corteo organizzato dalla «Manif pour Tous» a Parigi il 16 ottobre 2016
Com’è nato il macronismo, questo centrismo atipico e duttile senza precedenti in Francia? Oltralpe, la domanda rimbalza ancora fra dibattiti mediatici e universitari, ma con un assunto ormai condiviso: al di là delle indubbie qualità personali, il presidente Emmanuel Macron si è imposto sulla scena approfittando a piene mani di un’usura senza precedenti della politica transalpina intesa come scontro ideologico senza esclusione di colpi. Insomma, un Macron visto dai suoi elettori come un paladino del realismo, del pragmatismo e soprattutto della capacità di conciliazione fra le parti, dopo gli sferragliamenti uditi durante il mandato del socialista François Hollande (2012-2017).
In effetti, per comprendere il nuovo corso aperto da Macron, è inevitabile tornare a riflettere retrospettivamente sulle crisi più acute che avevano segnato il quinquennio del suo predecessore. Fra queste, pure la fragorosa spaccatura provocata nel Paese dalla più controversa fra le leggi adottate da Hollande: quella del «matrimonio per tutti», ovvero sulle nozze e adozioni omosessuali, che un decennio fa, fra l’autunno 2012 e l’estate 2013, spinse in strada fiumi di manifestanti, spesso credenti, mai visti da lustri sotto la Quinta Repubblica. Dei cortei giunti a Parigi da ogni contrada, spiazzando classe politica e politologi. Quel braccio di ferro fece capire che una larga parte della Francia non era disposta ad accettare supinamente che delle questioni di portata antropologica potessero essere immesse sul “mercato” dell’offerta politica come un progetto ordinario.
Dopo mesi di contrapposizioni, la legge passò. Ma al termine della legislatura, i seguiti politici si rivelarono molto duri per la sinistra: lo smottamento, anzi quasi il collasso del Partito socialista (Ps) che fu di François Mitterrand, repentinamente scomparso dalla scena delle forze politiche capaci d’incidere sul corso del Paese. In cifre, fra il mandato Hollande e la legislatura successiva: da 295 deputati Ps ad appena 31. Senza contare altri segnali inequivocabili: un presidente Hollande così in basso nei sondaggi da non osare una nuova candidatura; una gauche finita in mano al “tribuno rosso” anticapitalista Jean-Luc Mélenchon; un Ps ai limiti della bancarotta, tanto da dover vendere la storica sede di rue Solferino; il rischio di un’irrilevanza politica duratura, confermato anche durante l’ultima corsa presidenziale, con la candidata Anne Hidalgo rimasta all’1,75% dei voti, ovvero persino meno del tenebroso candidato della Francia “rurale”, Jean Lassalle (3,13%).
Dello storico duopolio socialisti-neogollisti, in effetti, Macron ha demolito i primi. Non i secondi, che possono ancora pesare in particolare grazie all’attuale maggioranza al Senato: 145 senatori neogollisti, nel quadro di un’alleanza di centrodestra a quota 202, su 348 seggi. Di che ostacolare qualsiasi riforma costituzionale. Di che suggerire, pure, che la scelta del centrodestra d’opporsi nel 2012-2013 ai modi sbrigativi di Hollande non è stata probabilmente dimenticata da una parte dell’elettorato. Anche se il tracollo del Ps e la parallela resistenza neogollista sono legati certamente pure ad altri fattori. In ogni caso, Macron ha fischiato simbolicamente la fine delle contrapposizioni ideologiche senza una consultazione larga di tutte le componenti della società. La cosiddetta era dell’en même temps: ascoltare le ragioni opposte, senza scelte forzose a priori sui temi sensibili, ipotizzando apertamente pure il ricorso allo strumento democratico del referendum.
Al contempo, il decennio trascorso dai fragori del 2012-2013 è certamente un momento di riflessione anche per i cattolici francesi, molti dei quali tendono oggi a fare autocritica. Soprattutto su un punto: l’essersi lasciati contagiare dal clima estremamente divisivo dell’epoca. Al punto che si diede ad esempio poco peso alle dichiarazioni di quei cattolici impegnati politicamente a sinistra, come il movimento dei Poissons roses, che denunciavano a loro volta l’approccio dell’Eliseo. Anche all’interno delle parrocchie francesi, la congiuntura provocò attriti, proprio nel momento in cui sarebbe stato fecondo approfondire al massimo il dialogo. È come quando ci si allontana da un rilievo, potendo così scorgere con più chiarezza la conformazione d’una catena montuosa. Lo scontro del 2012-2013 può essere riletto pure alla luce della necessità di confronti civili sempre pluralisti, rispettosi e d’alto profilo, rispetto alla volontà d’un partito d’imporre scelte rapide preorientate su temi di vasta portata.
In proposito, al contempo, colpisce pure una fresca analisi, sul quotidiano La Croix, del noto sociologo Yann Raison du Cleuziou, docente all’Università di Bordeaux, circa l’approccio dei manifestanti credenti di 10 anni fa verso l’omosessualità, nel quadro delle mobilitazioni guidate dall’associazione La Manif pour tous: « Ho constatato delle traiettorie personali che hanno superato una soglia nell’accettazione dell’omosessualità grazie al contesto di scontro e al loro impegno nella Manif pour tous. L’attenzione a non ferire le persone omosessuali diveniva indispensabile per difendere le proprie convinzioni». Il movimento, composto del resto anche da associazioni di persone omosessuali, è stato in effetti costante nelle reiterate e vigorose condanne dell’omofobia.
Ma guardare indietro significa pure interrogarsi sul presente e sul futuro. Così, molti si chiedono oggi se il presidente Macron si mostrerà fino all’ultimo all’altezza dell’immagine lusinghiera di “conciliatore” di cui continua a godere. Difficile prevederlo, anche nella scia di certe mosse recenti controverse, specie sul fronte bioetico: in particolare, Macron ha appena inaugurato un cantiere di riflessione nazionale che rischia d’approdare a nuovi strappi sul fine vita, in una Francia mai parsa tanto vicina all’eutanasia. Intanto, un decennio dopo, sono settimane di riflessione pure per La Manif pour tous, capace all’epoca di federare ad ampio raggio gli interrogativi e i dubbi dei francesi. Se ci riuscì, a ben guardare, fu grazie alla capacità di prendere le distanze dai singoli partiti. Insomma: evidenziare argomenti e domande di fondo pertinenti per la gente, ben fuori dall’agonismo fra i banchi parlamentari.
In seguito, questa distanza è parsa attenuarsi. Da una parte, certi ex esponenti o fiancheggiatori del movimento hanno raggiunto vari partiti, compreso quello macroniano, ma con un orientamento prevalente verso la destra. Dall’altra, durante l’ultima campagna presidenziale, delle voci rimaste nella Manif hanno mostrato una certa prossimità di visione con il candidato estremista sovranista e anti-immigrazione Éric Zemmour, uscito poi politicamente in ginocchio dalla competizione. Un duplice fenomeno che potrebbe avere ricadute sulla futura capacità della Manif di federare ancora manifestanti di sensibilità politiche diverse. Il senso dei 10 anni dal braccio di ferro del 2012-2013 va dunque certamente al di là dell’analisi del clima politico-culturale divenuto poi propizio all’avvento del “conciliatore” Macron. Per chi scese in piazza, quest’anniversario è un’occasione di riflessione pure sul senso da dare in futuro al proprio impegno nella società, grazie a un bagaglio di consapevolezze più ricco: con un risalto inedito per l’esigenza di guardare lontano, sforzandosi di neutralizzare le strumentalizzazioni politiche di corto respiro d’ogni tipo.