Piccola meditazione per il giorno di sant’Ilario . Le ultime e tenaci luci di Natale
Scrivo queste parole mentre, ancora una volta, il Natale è già finito. Non c’è, per me, passaggio più difficile nel corso dell’anno. Se la 'misura' vera del Natale – la sua vertigine mistica, il suo respiro cosmico – è quel movimento che inarca il tempo verso l’eterno, la fine del periodo natalizio, benché dolcemente accompagnata dalla stella dell’Epifania e dalla memoria del Battesimo del Signore, ci riporta alla nudità del tempo, a quel corpo ruvido dell’inverno in cui l’anima si scopre di nuovo fragilissima di fronte al rinascere del dolore. Non per tutti questo periodo termina la prima domenica dopo il 6 gennaio: nella città in cui sono nato e ho abitato fino ai cinquant’anni, Parma, un mese intero è illuminato dal Natale: il 13 dicembre la luce comincia a brillare con la festa di santa Lucia amatissima dai bambini, il 13 gennaio irradia i suoi ultimi bagliori con la festa di sant’Ilario, patrono della città. Ma anche altrove i segni del Natale tardano a svanire dopo l’Epifania: non tutti smontano subito i presepi, non tutti spogliano gli alberi, tolgono le candele e gli addobbi disarmando i riflessi della grazia e dell’incanto. Anche in vari angoli della città dove abito adesso, Milano, le luci del Natale continuano per qualche giorno a brillare come esili ma tanto più preziosi gioielli, come ultime gocce di cristallo o di neve, come occhi lustri, palpitanti del mistero sempre troppo breve della bellezza.
Uno dei più arcani miti della Qabbalah ebraica racconta la creazione del mondo come una dispersione della sostanza divina in un’infinità di 'scintille'. Creando l’universo Dio si era disseminato un po’ ovunque: le sue scintille, che i chassidim riconoscevano persino nei luoghi più oscuri, nelle locande o nei vicoli più malfamati, brillavano per ricordare agli uomini la natura sacrificale del mondo: per crearlo Dio non aveva potuto non rinunciare alla propria unità originale, non aveva potuto seguire altra via che quella della disseminazione, della dispersione, dell’esilio. Spesso, spiando le luci natalizie balenanti un po’ ovunque mentre la notte miracolosa si avvicina, mi è venuto spontaneo ripensare nel corso degli anni alle scintille della Qabbalah. Sebbene oggi non molti, forse, lo intuiscano, queste piccole luci non sono certo solo forme d’infantilismo o di fatuità, o trucchi per catturare l’attenzione degli assetati d’acquisti: sono la versione moderna di quell’antichissimo ma sempre molto vivo bisogno della Luce di Dio che brilla in noi e che ci spinge a cercarla, anche quando non ce ne rendiamo conto, fra tutte le pieghe, le vie, le soglie, gli spiragli della realtà. Soprattutto quando cominciano a ridursi, a spegnersi una a una perché ufficialmente il periodo natalizio è finito, queste luci mi sembrano eloquenti e struggenti.
Più che mai allora, mentre le intravedo ancora attraverso qualche finestra, portone o cortile in attesa di scomparire nel grigiore dei giorni ordinari, mi sembra di cogliere la loro affinità con le scintille del mito ebraico. Queste luci, queste stelline di Natale in extremis hanno un significato simbolico molto profondo: ci ricordano, sull’orlo del loro precipitare nel buio, che l’Infinito si è dovuto piegare alla povertà, alla piccolezza, ai limiti dello spazio e del tempo, ai confini di tutto ciò che è finito perché il mondo abbia un senso. Proprio attraverso la piccolezza e l’impermanenza queste luci ci invitano a riconoscere la grandezza della Luce che ci attende.
Per i chassidim il compito fondamentale era quello di liberare la maggior quantità possibile delle scintille divine prigioniere delle cose, di metterle insieme affinché il mondo tornasse alla sua origine ricomponendosi in Dio. In modo simile cosa dovremmo fare noi, vagando per le strade in cui i segni del Natale si stanno smorzando – ma resistono ancora, ancora – se non raccoglierli dentro di noi, se non custodirli nella nostra anima, se non prolungarli nell’invisibile affinché, tra un anno, il Natale possa tornare a liberarci dalle ombre del nonsenso, possa di nuovo rivelarci il volto di Dio?