Tre morti disperate: qui, oggi. Le storie e i doveri
Torna ogni volta a frugarci come una lama nel cuore l’enigma della vita, ogni volta che sentiamo dalle cronache raccontata la morte come l’epilogo voluto – e non sapremo mai se imprecazione o invocazione – di un 'non poterne più della vita', che contrassegna i suicidi: segno ambivalente di una speranza abortita o di una disperazione traboccata. Noi vi assistiamo per solito con ordinato sgomento, dicendo 'gesti folli' o cercando ragioni di resa, nello scorrere povero degli anni grami e della vita agra degli sconfitti, dei perdenti, degli espulsi che firmano la loro fine. E invece sempre ci resta dentro come una pugnalata quel grido di morte, quella lacerazione che spezza di colpo l’armonia, ferma l’orchestra, scurisce l’orizzonte: e ci inchioda a un silenzio di paura e rabbia e vergogna.
E pietà. Per loro, e per noi. Per questo senso di contagiata sventura, che ci procura l’immediata, miserabile rassegna dei nostri mezzi di rimedio o di scampo, quando i vivi si danno morte accanto a noi senza che noi abbiamo neppure supposto che sia possibile immaginare cosa. E ascoltare, e avvicinare, e chissà. Chissà quali scacchi usa la morte previa, la morte incrociata, la morte dei fari spenti dell’anima, la morte dell’abbandono.
Il pensiero ora ripercorre il fluire della vita umana, di ogni vita, dentro la finestra del tempo. Lungo o breve, segnato di luci o di lutti, è quanto ci è dato per capire il senso dell’essere. Ma la singolarità di questa ventura è l’insieme, la coesistenza, la contiguità dell’essere nostro, la condivisione. E il suo culmine può chiamarsi a ragione 'confidenza', confidenza fra noi, arte di narrarsi e di ascoltarsi. È come darsi vita, così, gli uni con gli altri, è come rintuzzare la morte, le seduzioni della morte. Ma se oggi ci tocca raccogliere la tragica confidenza dei suicidi vuol dire che siamo in ritardo sull’orologio dell’attenzione. Allora ci toccherà capire, dopo la triplice sequenza di morte procurata a Civitanova Marche, ieri, se è la desolazione della povertà materiale, o la denuncia d’una solitudine esistenziale, il crollo della speranza che spezza la voglia di vita. Ci toccherà capire che cosa è accaduto nei giorni e nelle anime di due coniugi suicidi, 62 anni lui, muratore licenziato, 68 lei, artigiana pensionata: soli, e così dignitosi da non chiedere aiuti, ma aggrappati a una misera pensione certa e a un’incerta attesa di stipendi arretrati. E proveremo a capire, per sovrappiù, quale dolore o ricordo ha squarciato cuore e mente dell’anziano fratello di lei, fino a precipitarlo in mare alla notizia. Di fronte a ogni suicidio si agita sempre il pensiero di un giudizio potenzialmente usurpato. I princìpi stanno lì, saldi, ma giudicare le storie umane non spetta a noi, non spetta a nessuno. Chi si dà morte si è dato una specie di condanna a morte, e la prima risposta è che no, che non è la morte la risposta giusta, non è la morte la giustizia; e anzi la morte oscura è l’ultimo nemico di cui ci è stata promessa la sconfitta.
Quanto la seduzione di sconfitta (di morte) peschi nell’indifferenza verso i bisogni e le sventure degli altri è il problema principe che dovrebbe svegliare la Repubblica dai suoi letarghi. La politica dai suoi giochi. E la comunità cristiana dalle sue pavidità.