Lettere. Le stanze lasciate vuote dai figli emigrati tra amarezza e speranza
Caro Avvenire,
ho in casa una stanza vuota, ridotta a magazzino dopo l’ultima partenza di un figlio un anno e mezzo fa, volato in Estremo Oriente la prima volta nel 2012 con borsa di studio del Politecnico. Egli ha studiato in Cina fino all’inizio del corso di laurea magistrale a Singapore, dove ora lavora a tempo indeterminato in una multinazionale dei semiconduttori. La stanza attigua, della sorella, è rimasta vuota nel 2008 per la quarta liceo in Nuova Zelanda e due anni fa per un anno di tesi sperimentale in Germania; rioccupata da poco, si presume non lo sarà per molto. La terza stanza, in capo al corridoio, è vuota da agosto, e lo sarà sino a fine giugno, termine del quarto anno di liceo che il più piccolo dei tre fratelli sta frequentando in Cina; dopo l’esame di Stato forse anche lui riprenderà il volo; per dove, chissà. In quelle stanze preme il vuoto regalato ai giovani dalla nostra generazione, in parte compensato da qualche buon esempio e incoraggiamento. Per fortuna i ragazzi sanno lavorare duro per cercare la felicità. E trovarla, forse, in qualche angolo del mondo vasto. Volate, ragazzi, a cercare voi stessi. Noi ci trasferiremo in una casa più piccola, priva di stanze buie e vuote, riempita dei vostri sogni e illuminata dai vostri racconti di sfide belle e Paesi lontani.
Sono sempre di più nelle case italiane le stanze vuote lasciate da un figlio che va a studiare lontano, per prepararsi un futuro che qui non avrebbe; e ancora di più quelle lasciate da giovani che all’estero o comunque altrove si sono stabiliti definitivamente per lavoro, e non per scelta. È vero, come scrive il lettore, che quelle stanze abbandonate pesano sulla nostra generazione di padri e di madri. Molti di noi sono cresciuti nell’era del posto fisso e garantito, e non hanno mai dovuto porsi il problema di andare lontano per vivere. Lontano ci erano andati magari i nonni, da poveri migranti e senza un titolo di studio; ma che i figli, avendo studiato, se ne debbano comunque andare, ha un sapore amaro. La generazione che ha goduto il più ampio benessere nella storia italiana, e le maggiori tutele sindacali, si lascia dietro dei figli che il mondo del lavoro sembra non attendere né cercare. E quante case non sorgeranno o non verranno occupate, in Italia, da giovani coppie, quanti figli non nasceranno qui, ma altrove, e parleranno un’altra lingua, dimenticando adagio la nostra. Sa di collettivo declino, dentro al più ampio quadro della crisi demografica che ci affligge, questo andarsene di figli, una “fuga” che è forse prova di coraggio. E tuttavia, signor Asola, nella sua casa di stanze vuote può consolarla il fatto che i suoi ragazzi comunque hanno spiccato il volo: non hanno avuto paura di andare lontano né di sentirsi soli, in Paesi molto lontani. In un modo più duro di quanto sarebbe normale, hanno fatto o stanno facendo il loro mestiere di figli: che è andarsene, e costruirsi una vita loro. Non sarebbe forse peggio avere tutte le stanze di casa occupate, da ragazzi però che si abituano o si rassegnano a farsi mantenere, come non raramente accade, e in questa dipendenza si adagiano, mentre passano gli anni? Il mestiere dei figli, che emigrino oppure no, è andare, e vivere la propria vita. E il mestiere dei genitori è prepararli e lasciarli partire – il che non è, scopro ora che tocca a me, così semplice: è come partorirli un’altra volta, ma questa volta senza poterli stringere fra le braccia. Lasciarli andare, restando in case ora troppo grandi, in cui il silenzio, la sera, si fa denso. Sembrava fosse per sempre, il tempo della casa piena di bambini, rumorosa di giochi e di grida; e invece la fatica più grande è ora, quando i genitori devono farsi da parte. E abbiamo sempre saputo che i figli non sono nostri, ma ci sono solo affidati; che strappo però nell’ora in cui com’è giusto, autonomi, vanno. Nelle stanze rimaste vuote allora non ci resta che sperare che arrivino dei nipoti, a rallegrarci. E volentieri allora, se quei nipoti verranno, ricominceremo a cambiare pannolini, a raccontare fiabe e a condurre i primi passi traballanti di nuovi bambini. Più contenti di quando eravamo padri e madri, e più commossi per questa vita che continua e ricomincia, oltre di noi.