Governare l’accoglienza è possibile. Le soluzioni disponibili
Sbarchi incontrollati, complotti europei, invasione in atto, aiuti alle Ong per i salvataggi in mare definiti come affronto all’Italia: si alzano ancora una volta i toni sul dossier asilo, anche per coprire i fallimenti governativi nell’attuare le roboanti politiche annunciate. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Anzitutto, gli sbarchi non sono l’immigrazione, neppure quando si traducono in domande di asilo. Gli ingressi dal mare sono stati finora 133.000 quest’anno, certamente in aumento (l’anno scorso a quest’epoca non arrivavano a 70.000).
Richiedenti asilo e rifugiati però erano 340.000 alla fine dello scorso anno, di cui quasi la metà ucraini, ora saranno 400.000 o poco più, su una popolazione immigrata che si aggira sui 5,3 milioni di residenti regolari, più 4-500.000 persone in condizione irregolare. Meno del 10%. La popolazione immigrata nel complesso è stabile da una dozzina d’anni, è persino un po’ calata, tanto che non basta più a soddisfare i fabbisogni di manodopera: lo stesso governo ha previsto 450.000 nuovi ingressi dall’estero in tre anni.
Tra l’altro, chi arriva per asilo, riconosciuto o meno, se appena può cerca di transitare verso altri Paesi. La maggior parte del milione circa di persone arrivate dal mare nell’ultimo decennio oggi non si trova più in Italia. In realtà, assistiamo all’assemblaggio un po’ confuso di tre diverse politiche migratorie: generosa accoglienza, per fortuna, verso i profughi ucraini; cauta ma sostanziale apertura verso i lavoratori; chiusura verso chi arriva spontaneamente dal Sud del mondo, Paesi in guerra compresi. Le motivazioni utilizzate, come la lotta agli scafisti, la difesa dei confini, la necessità di permessi e autorizzazioni, si scontrano con il fatto che chi fugge non ha accesso a documenti e sistemi di trasporto legali, si affida a chi in un modo o nell’altro può trasportarlo in un luogo più sicuro. Le ipotesi di detenzione prolungata alla frontiera per mancanza di documenti, o del pagamento di improbabili cauzioni, si scontrano con gli insuccessi sul fronte delle espulsioni, su cui nessun Paese europeo può vantare grandi successi, neppure la Germania.
È importante allora provare a mettere a fuoco qualche misura alternativa. Anzitutto, se abbiamo da una parte degli ingressi di giovani atti al lavoro e dall’altra dei fabbisogni di manodopera, una soluzione logica sarebbe quella di farli incontrare, previe verifiche di idoneità e opportuni percorsi formativi. Così stanno facendo senza troppo clamore i nostri principali vicini, anche nei confronti dei richiedenti asilo “diniegati” (chi ha ricevuto una risposta negativa). Arrivi spontanei ce ne saranno ancora, dal mare o con altri mezzi, finché il Sud del mondo non conoscerà stabilità e sviluppo. Per ridurli, l’offerta di percorsi d’ingresso legali per lavoro è una misura sensata, ma bisogna anche tener conto di chi proviene da Paesi ostili, come l’Afghanistan, che non beneficiano di quote d’ingresso. Qui le misure possibili, e già sperimentate, si chiamano reinsediamenti, sponsorizzazioni private, corridoi umanitari.
Si tratta cioè di individuare le persone bisognose di protezione internazionale nei luoghi di primo asilo, di solito i precari campi profughi nei Paesi confinanti con quello di origine, per trasferirli in nazioni in grado di accoglierli dignitosamente. Accanto ai reinsediamenti operati dai governi (circa 100.000 all’anno nel mondo), sta crescendo la partecipazione di attori privati, dalle associazioni alle comunità religiose, alle stesse imprese.
In Canada questa formula ha prodotto nel tempo l’accoglienza di 300.000 persone. I corridoi umanitari italiani, esportati poi in altri Paesi europei, si avvicinano a questa soluzione, che ha il pregio di coinvolgere volontari e comunità locali nel sostegno ai rifugiati: 5.000 persone protette per questa via sono un risultato importante, ma i numeri potranno crescere coinvolgendo un maggior numero di attori, prevedendo una partecipazione dei governi locali, delle Ong, delle forze economiche, e soprattutto sviluppando – l’esempio canadese anche su questo è antesignano – formule miste pubblico-private. Tra i rischi del mare e la chiusura dei porti, un ampio ventaglio di soluzioni umanitarie è in realtà disponibile e già sperimentato.