Esperimento politico / 1. Il treno del futuro e l'insidia di piccole e grandi ambizioni
Caro direttore, e così anche il voto sulla 'piattaforma Rousseau' è andato. Finalmente. Dopo le incertezze, le pretese e i turbamenti vissuti alla luce del sole dai maggiori protagonisti del negoziato, il governo Conte 2 dovrebbe prendere il largo. Ha vinto, al di là di ogni turbolenza politica, il buon senso dello stato di necessità.
Portar fuori il Paese da un esperimento fallito, il governo 5Stelle-Lega, per cogliere un’opportunità seria e difficile per impostare una politica di medio-lungo periodo che cambi i trend negativi di questo Paese in un mondo che cambia più velocemente dei nostri pensieri e delle nostre idiosincrasie. Con fiuto politico e con una capacità di 'visione' che, mettendo da parte il suo stesso scetticismo, il segretario del Pd Nicola Zingaretti gli ha prontamente riconosciuto, è stato Beppe Grillo a segnalare ai titubanti attori politici dell’accordo per il nuovo esecutivo il 'treno del futuro' che stava passando e che non si sarebbe più fermato davanti a loro. Ha parlato al futuro, il vecchio comico incendiario diventato garante politico del 'suo' Movimento, incitando a essere 'governisti' senza pensare troppo alle poltrone. Apparentemente un paradosso. Molto di meno di quel che può sembrare, però. Grillo non ha fatto altro che interpretare in modo corretto il risultato delle elezioni del 4 marzo 2018 che hanno insediato questo Parlamento. Un risultato che consegnava ai 5stelle circa il 33% dei voti e il 36% per cento dei parlamentari. Una responsabilità enorme, come ha ricordato all’apertura della crisi il direttore di questo giornale, e un chiaro mandato a 'cambiare' l’Italia, cioè a 'governare'. Perché solo governando un Paese lo si cambia.
La radice del 'governismo' dei grillini è tutta qui. Il primo tentativo di assolvere a questo mandato 'governativo' il M5s affidato a Luigi Di Maio lo ha esperito con la Lega, partito arrivato terzo alle elezioni. E questo per due motivi: la scelta del Pd di farsi spettatore di prima fila (l’infelice immagine di una seduta in poltrona «a mangiare popcorn»), ma anche l’effetto trompe l’oeil della Lega di Matteo Salvini, che se anche sta su poltroncine e poltrone da ventisei anni è sembrato al mondo grillino più nuovo, e meno coinvolto nella 'politica' da cambiare da cima a fondo, del Pd. Un esperimento fallito, per ragioni d’incompatibilità sottovalutate (seppure temute, vedi la necessità del 'contratto', che fai e affidi a un 'avvocato' quando non ti fidi), e soprattutto per una, fondamentale, linea di scontro puntualmente registratasi in quest’anno di governo giallo-verde: la distanza crescente tra il sovranismo di Salvini e il processo di 'costituzionalizzazione' del Movimento. Il sovranismo di Salvini per affermarsi chiedeva – giocando di sponda col populismo grillino – di cambiare, per altro in modo surrettizio, la forma di governo del Paese, in direzione di una democratura affidata a un uomo forte, cioè a un uomo solo al comando (guarda caso se stesso) e alla dichiarata ricerca di «pieni poteri».
Una spinta a mettere in crisi le istituzioni, a portare il 'popolo' fuori dalle istituzioni per governarlo direttamente, rendendo inerte la democrazia parlamentare, proprio mentre i 5stelle erano impegnati, costituzionalizzandosi, a riportarvi dentro il loro 'popolo'. Il corollario attuativo necessario di questo schema era l’evaporazione della leadership dell’alleato di governo, abbracciato in modo da soffocarlo, e spingendolo, per reggere sui social a un continuo confronto elettorale, a tornare sul terreno scivoloso di un 'populismo del No' – no a questo, no a quello, per marcare una differenza dall’iniziativa dell’altro –, puntualmente poi rinfacciatogli per aprire la crisi di governo. Il peggior nemico del mandato politico ricevuto dal Movimento il 4 marzo 2018 è stato Salvini, per ragioni oggettive dal suo punto di vista. E giocate abbastanza male all’ultimo miglio. Grillo e Giuseppe Conte, il premier non iscritto ma vicino ai 5stelle, hanno colto il punto, e hanno usato l’occasione della crisi di governo per tirarsi fuori da questa trappola, esiziale per il Movimento, ma anche per un Paese che voleva e vuole cambiare. Ora c’è un nuovo esperimento da fare, con il Pd di Zingaretti. Forse più sostenibile. Comunque l’ultimo. Perché riesca, però, c’è una condizione di fondo. Che grillini e Pd non usino il governo Conte 2 per regolare pesi e contrappesi politici nel Movimento o per fare il congresso in casa dem. Sono dinamiche legittime in ogni forza politica, le assolvano nei modi che riterranno più opportuni, ma tengano fuori il Governo da questi processi di assestamento interno. Faranno un favore innanzi tutto all’Italia, ma anche a se stessi, perché agli italiani alle prossime elezioni non interesserà più di tanto sapere chi avrà avuto la meglio su chi negli assetti a definirsi di Pd e M5s, ma che cosa di buono, sensato, condiviso (e, dunque di non deliberatamente divisivo delle coscienze) sarà stato fatto per il Paese.
Filosofo, Università Federico II Napoli