Opinioni

Il direttore risponde. Le buone radici della Repubblica: giusto grazie e sguardo al domani

Marco Tarquinio martedì 3 giugno 2014
Caro direttore,io sono figlio di un partigiano, forse anche per questo amo tantissimo la mia terra e sono orgoglioso di essere italiano. Mio padre salì in montagna nel novembre del 1943, a 18 anni e tornò a casa dopo la liberazione di Asti, con un sigaro da regalare a suo padre e un moschetto, che si preoccupò subito di buttare nel pozzo. Ci parlò sempre poco della “sua” guerra, molto del fascismo e della miseria che vide in quel tempo. Solo recentemente abbiamo scoperto due medaglie al valor militare e un eroe, in quello che credevamo soltanto un buon papà. Aveva 20 anni quando “… con ardimento intercettava una colonna nemica, infliggendo gravi perdite al nemico …” e nella ritrosia a raccontare, c’era la sua natura di uomo mite, forse qualche senso di colpa per aver sparato, forse ucciso (chissà …), in quella follia, in quegli anni tanto duri. Oggi, alla stessa età, mio figlio lavora tre sere alla settimana in pizzeria e arbitra la domenica, per pagarsi l’università, perché non siamo gente ricca, ci si deve arrangiare. Vive in un’Italia imperfetta, ma libera, dove tanti si lamentano di tutto, ma tanti altri e per fortuna tanti giovani, si danno da fare ogni giorno per farne un luogo degno della sua bellezza. Io sono figlio di un partigiano, e non ho fatto altro che ricordare a mio figlio di avere avuto un nonno che diceva di “aver fatto quel che si doveva fare”, convinto di essere dalla parte giusta in un momento sbagliato e che occorre sempre darsi da fare, non urlare in piazza: «Questa è una guerra!». Le guerre sono sempre insensate, non evochiamole più. Non serve. Servono il dialogo e la buona volontà. Serve che non si dimentichino coloro che a venti anni fecero “quel che andava fatto” e ricostruirono un Paese meraviglioso e fecero la Repubblica Italiana.Silvano Bertaina, Govone (Cn)
Gentile direttore,il 2 e 3 giugno 1946 l’Italia è chiamata al Referendum Istituzionale. La lettura dei risultati, avvenuta il 10 giugno, non proclamava la Repubblica. Si decise pertanto di riunire la Suprema Corte il 18 dello stesso mese. Ma la sera del 12, il Governo De Gasperi si avvalse di poteri che non gli spettavano, deponendo Re Umberto II e dichiarando la nascita della Repubblica. Il giorno dopo, il Re partiva per il Portogallo, lasciando un proclama che ancora oggi spiega tante cose. Neanche allora fu proclamata la Repubblica. Perché allora festeggiare il 2 giugno, un’Istituzione che fu imposta?Rodolfo Armenio, Pompei (Na)
Caro direttore, è una festa davvero importante quella della Repubblica. In questo 2014 più di tante altre volte ci fa presente non tanto la scelta fra Repubblica e Monarchia, ma il “costituirsi” del popolo di cui facciamo parte, un popolo che non coincide più soltanto con una nazionalità, un popolo che è aperto all’altro, che non lo tollera appena, ma che lo valorizza come parte di sé! Questo – a mio parere – è oggi il senso della festa della Repubblica, la sua apertura all’altro con cui si costruisce una dimora sempre più ampia e accogliente. È la Repubblica Italiana una costola viva dell’Europa, qui sta la novità di oggi, un compito urgente, quanto mai nostro. Gianni Mereghetti, Abbiategrasso (Mi)
Quanta consapevolezza e quanta speranza nelle vostre parole, cari amici. E non le offusca di certo la tenacia di qualche (arcinoto) rimuginìo polemico. Cinquantotto anni dopo, credo che di certi malumori sia proprio meglio fare a meno, chiudendoli una buona volta in archivio. Se la sera del 12 giugno 1946 – alla luce del comunque chiaro responso del Referendum e di quanto stava purtroppo e tragicamente accadendo in alcune zone del Paese, soprattutto a Sud dove il voto per la Monarchia era stato più forte – Alcide De Gasperi si risolse ad assumere le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano (che di lì a poco avrebbe trasferito a Enrico De Nicola, eletto il 28 giugno a quell’altissimo ufficio dall’Assemblea Costituente), non fu soltanto per sciogliere definitivamente il nodo che Giuseppe Romita espresse con la secca e celebre alternativa: «O la Repubblica o il caos!», ma per dare concretamente il via al cammino di ricostruzione dell’Italia. Cioè a un tempo nuovo ormai maturo nella vita della nostra comunità nazionale. Voglio dire, gentile signor Armenio, che la decisione dello statista democristiano non fu una forzatura sul piano istituzionale e neanche un atto politico di tipo puramente difensivo, quasi obbligato dal contesto, ma fu una scelta propositiva e lungimirante che assumeva il sentimento popolare prevalente e avviava a compimento e a superamento la fatica, il dolore e le ferite della guerra – che fu dura guerra civile – per la liberazione del nostro Paese dal fascismo e dall’occupazione nazista. Il Regno dei Savoia finì per i gravissimi errori del penultimo sovrano, Vittorio Emanuele III, non certo per una congiura. Preferisco, perciò, rinnovare il grazie a uomini, partigiani e fondatori della nostra preziosa democrazia (che oggi, a volte, rischiamo pazzamente di dare per scontata o per inutile) come il padre di Silvano Bertaina. E mi piace che, proprio come nella lettera che inaugura la breve serie a cui oggi rispondo, quel “grazie” si faccia giustamente sguardo orientato al domani. Pensando ai nostri figli. Pensando alla Repubblica che dobbiamo rinsaldare e alla patria comune che qui e nell’Europa unita – il professor Mereghetti fa bene a ricordarcelo – abbiamo il compito di continuare a costruire. Assieme a tanti “altri” concittadini, che con noi e come noi accettano e vivono diritti, doveri e irrinunciabili valori.