Lo scenario. Hong Kong, la strategia cinese consise nell'erodere i diritti
Sarah Brooks, direttrice di Amnesty International per la Cina, ha parlato di «un’epurazione quasi totale dell’opposizione politica, l'esempio più spietato di come la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong venga utilizzata come arma per mettere a tacere il dissenso». Per Anne-Marie Trevelyan, ministra britannico per l’Indo-Pacifico, l’odissea giudiziaria dei 14 attivisti per la democrazia – condannati per “sovversione” giovedì da un tribunale di Hong Kong a pene che possono arrivare fino all’ergastolo – è «una chiara dimostrazione» di come la lunga mano di Pechino nella vita dell’isola miri a «soffocare l’opposizione e criminalizzare il dissenso politico».
La vicenda dell’ex colonia britannica ceduta alla Cina nel 1997 – lo sgretolamento di un patrimonio di libertà e democrazia conficcato nel grande corpo del gigante asiatico – contiene una traccia “anfibia” del modus operandi di Pechino. Di come ha operato in passato e di come opererà in futuro, non solo nel “cortile di casa” ma nei vari teatri del mondo. L’“appropriazione” cinese è stata un processo lento, paziente, graduale, insinuante. Un’erosione più che una deflagrazione. A tappe, a tentativi. Come scrive il think tank Council of Foreign Relations, nel tempo «Pechino ha adottato misure sempre più sfacciate per invadere il sistema politico di Hong Kong».
Nel 2003 il primo tentativo del governo locale di imporre una legislazione sulla sicurezza nazionale che colpisse «il tradimento, la secessione, la sedizione e la sovversione contro il governo cinese» viene vanificato dalle proteste popolari. Nel 2012 arriva la modifica dei programmi di studio delle scuole di Hong Kong per promuovere l’identità nazionale, cinese ovviamente. Nel 2014 Pechino “restringe” il suffragio universale, consentendo agli abitanti di Hong Kong di votare da una lista di candidati approvata preventivamente da Pechino. Scatta la protesta degli ombrelli. Nel 2019 si replica: le manifestazioni di piazza sono accese, questa volta, da una “torsione” legislativa, approvata da Pechino, per l’estradizione di “criminali” nella Cina continentale. Nel 2020 cala la scure della legge sulla sicurezza nazionale. Da allora, le autorità hanno arrestato dozzine di attivisti, uomini politici e giornalisti, compresso i diritti, ristretto la libertà di stampa e di parola. Ma non basta. Nel marzo 2024 i legislatori approvano l’Articolo 23, ulteriore stretta sulla sicurezza che consolida il dominio cinese. Giovedì l’epilogo con le condanne “esemplari” degli attivisti pro-democrazia.
Contemporaneamente la Cina è diventata sempre più assertiva nei confronti dell’altro dossier aperto: il destino di Taiwan, considerata come una semplice “provincia” dell’impero. La stessa miscela, aggressiva e suadente, la leadership cinese la sta modulando in Africa e in America Latina, tanto da far temere nuove forme di colonialismo. Ma il gigante asiatico vuole, al tempo stesso, proporsi come «un attore responsabile», impegnandosi «per la stabilità mondiale», come più volte ripetuto dal presidente Xi Jinping. Un intreccio di luci e ombre, spinte autoritarie e aperture, collisioni e fiancheggiamenti, che non può oscurare un dato di fatto: il nuovo ordine mondiale non potrà prescindere dalla Cina.