Opinioni

L'ultima gara. Martina, Ambra e lo sport senza aggettivi delle Paralimpiadi

Edoardo Castagna martedì 10 settembre 2024

La caduta di Ambra Sabatini che ha travolto anche Monica Contraffatto

Quattrordici secondi. Tanto – poco – può racchiudere un’intera carriera, una vita sportiva. Quattordici secondi è durata la finale dei cento metri, sabato sera, e in quei quattordici secondi c’è stato tutto. La vittoria di Martina Caironi, la vittoria del riscatto della campionessa all’addio, che l’ultima volta aveva dovuto inchinarsi con un sorriso teso alla sconfitta arrivata per opera della giovane, arrembante compagna di squadra. La vittoria tenacemente inseguita in tre anni di lavoro e dedizione feroce, affamata nonostante i tanti allori già conquistati in carriera. Ma adesso c’è lei, Ambra Sabatini. E forse anche sabato l’avrebbe sconfitta, se non fosse arrivato quell’inciampo a pochi metri dal traguardo, quella caduta repentina da leggere nei suoi occhi attoniti, increduli. Avrebbe raggiunto Martina, non l’avrebbe raggiunta, avrebbero festeggiato insieme sul podio, magari di nuovo con Monica Contrafatto, la terza di Tokyo, che invece è stata travolta dalla sua caduta. A terra, in lacrime, e poi ai microfoni affranta quasi più per il danno portato alla compagna che per la propria medaglia sfuggita. Mezzo lieto fine: i giudici, con manica larga che qualche volte significa buonsenso, riconoscono il danno subìto da Monica e le assegnano la medaglia di bronzo, nonostante quel centesimo di secondo sul traguardo – attraversato nella caduta – rispetto alla terza classificata. Monica, che tra l’altro è stata anche la prima donna a ricevere la medaglia d’oro al valore dell’esercito per le sue gesta in Afghanistan (tanto per mettere un carico su una biografia già fatta di medaglie su medaglie), esulta e dedica il bronzo, naturalmente, ad Ambra. Che è la più giovane, e guarda già alla prossima volta. Tutto lo sport è qui, in questi quattordici secondi; «Se cadi, ti rialzi », aveva detto pochi giorni fa un altro azzurro con la medaglia d’oro al collo: Oney Tapia.

Ah, un dettaglio: sono tutti atleti paralimpici. Un dettaglio, evidentemente, secondario: le storie che abbiamo vissuto e raccontato in queste quasi due settimane di Paralimpiadi sono state storie di sport, senza aggettivi. E le abbiamo raccontate dedicando lo stesso spazio e la stessa attenzione riservata alle Olimpiadi. Che ci hanno permesso di illuminare, oltre alle straordinarie storie di questi campioni di umanità, aspetti non secondari legati al mondo della disabilità: dall’evoluzione tecnologica delle protesi alla strada ancora da fare per garantire l’accessibilità nelle nostre città. La risposta del pubblico, sia sui campi di gara quasi sempre al tutto esaurito sia attraverso la televisione (per la prima volta la Rai ha trasmesso ogni cosa, e con la stessa attenzione e professionalità dispiegate per le Olimpiadi un mese prima), lo ha confermato. Diventa quasi difficile rimarcare che qui nessun pietismo è necessario, anzi: lo sport per disabili ha virato alla boa e si è guadagnato sul campo un suo spazio di attenzione, portando il livello delle competizioni a un’altezza tale da far notizia in sé. Grazie agli atleti. Quelli che sono diventati personaggio e quelli che lo diventeranno; quelli che hanno mietuto medaglie come Raimondi, Barlaam e i tanti altri campioni della nostra nazionale di nuoto, e quelli che la medaglia l’hanno persa per due centimetri saltati in meno. O per un inciampo a cinque metri dal traguardo. «Se cadi, ti rialzi».