Opinioni

Partito e società. Le nuove rigidità della Cina di Xi dietro le proteste anti-lockdown

Riccardo Redaelli martedì 29 novembre 2022

Le proteste di massa nella Cina di Xi Jinping non sono certo uno spettacolo usuale. Inevitabile quindi che ritornino alla mente le immagini del lontano 1989, con le manifestazioni represse nel sangue di piazza Tienanmen. Un parallelo, tuttavia, profondamente distorcente: quanto avviene oggi non ha a che fare con la richiesta di maggior democrazia politica, ma si limita a mostrare l’esasperazione di molti cinesi per le draconiane politiche anti-Covid perseguite dal governo cinese. I continui prolungati lockdown che coinvolgono città di decine di milioni di abitanti e il rallentamento delle attività produttive hanno costi eco-nomici e sociali enormi, oltre a riverberarsi a livello globale.

Ma, appunto, queste proteste non vanno confuse con una contestazione politica al sistema. Non viene sfidata la centralità politica del partito comunista (Pcc) ma se ne contesta la durezza della politica sanitaria. Una scelta, quella dei continui lockdown, che è figlia tanto della rigidità mostrata da Xi Jinping, quanto delle criticità che la Cina deve affrontare: dispone di un vaccino poco efficace e che ha raggiunto una platea ridotta della popolazione e di un sistema sanitario che non sarebbe in grado di reggere un’esplosione dei contagi. Cambiare strategia ora sarebbe ammettere che quella praticata sinora è stata fallimentare.

Eppure, tutto ciò rappresenta solo un aspetto, quello più contingente, di una durezza che non dipende solo dai pericoli della pandemia, ma dalle scelte politiche del segretario generale del Pcc, confermato per un terzo mandato. Xi ha accentrato su di sé poteri enormi e ha progressivamente impresso un irrigidimento della postura politica del regime, tanto a livello interno, quanto nei rapporti internazionali. Sul piano interno è evidente la sua volontà di rimettere il Pcc al centro della società, evitando derive che lui definisce “nichiliste”, etichetta con cui si condanna ogni visione alternativa dei meccanismi di potere e dell’ideologia. Le purghe anticorruzione, il rilanciare la “moralità” degli stili di vita, gli interventi con le grandi società private (ad esempio Alibaba) - il gigantismo delle quali le poteva far diventare una sorta di contropotere rispetto al partito sono tutti tasselli di una visione politica che sarebbe riduttivo relegare alla semplice sete di potere personale.

Semplicemente, la “sua” Cina è diventata ormai una superpotenza che si confronta con gli Stati Uniti per il primato internazionale. Nella visione di Xi, questo non lascia spazio a distinguo o a zone d’ombra. Viene anche da qui la scelta degli anni passati di “normalizzare” Hong Kong, contravvenendo alla politica sbandierata di “un Paese due sistemi”, che era stata alla base del ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina e che si voleva usare anche con Taiwan. Una rigidità che tuttavia rende sempre meno credibile la politica finora seguita da Pechino nella regione dell’Asia Pacifico e nel mondo. Quella ossia di presentarsi come una grande potenza economica, ma molto duttile e cauta sul piano della geopolitica e delle relazioni di potere. Per alcuni ana-listi, era pragmatismo, per altri, solo ambigua duplicità che doveva far guadagnare tempo a un Paese che stava ancora modernizzando le proprie Forze armate.

Oggi, la Cina di Xi ha scelto di percorrere una via diversa, almeno nella regione dell’Asia Pacifico. Qui la rivalità con gli Stati Uniti è non solo evidente, ma si riverbera nei confronti dei Paesi vicini che con Washington hanno da decenni alleanze politiche e militari, e che geograficamente “soffocano” la proiezione cinese nell’Oceano Pacifico (basti pensare a come Corea del Sud, Giappone, Filippine e Taiwan formino una sorta di anello tutto attorno alle coste cinesi).

La grande potenza asiatica insomma mostra i muscoli dentro e fuori i suoi confini, scommettendo che il tempo, come talora si dice, stia dalla parte della Cina e non degli Stati Uniti. Ma questa accresciuta rigidità accentua le tensioni interne e rischia di spaventare molti dei Paesi del macro-continente euroasiatico. Forse a Pechino dovrebbero ripensare a una famosa massima di Confucio: «L'uomo superiore è sicuro di sé senza essere arrogante; l'uomo dappoco è arrogante ma insicuro».