Opinioni

Come cambia il mercato del lavoro. Le nuove assunzioni in Fiat primo test per il Jobs act

Leonardo Becchetti mercoledì 14 gennaio 2015
Il nuovo anno è partito con una notizia importante per l’industria e il mondo del lavoro: la Fiat-Chrysler che annuncia mille nuovi posti di lavoro nello stabilimento di Melfi, per far fronte alle esigenze del mercato. Le assunzioni non beneficiano ancora delle norme (e degli incentivi) del Jobs act, ma l’aggancio dovrebbe avvenire quando il provvedimento sarà in vigore (proprio ieri il governo ha trasmesso alla Camera i due decreti attuativi, quello sul contratto a tutele crescenti e sulla riforma degli ammortizzatori sociali, ndr).  Anche alla luce di questo segnale è forse il caso di porsi una domanda: quale potrà essere, concretamente, l’impatto del Jobs act sul mercato del lavoro italiano e sul nostro elevato tasso di disoccupazione? Proviamo a capirlo analizzando quattro diversi casi. Nel primo ipotizziamo che il datore di lavoro si aspetti una domanda di lavoro temporanea e le sue aspettative saranno confermate dai fatti. Nel vecchio scenario avrebbe usato una tra le varie forme contrattuali a tempo determinato mentre nel nuovo potrebbe optare per il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti reso in molti casi più vantaggioso del primo per gli sgravi fiscali all’assunzione e per la possibilità di licenziamento individuale con indennizzo contenuto (due mesi di stipendio pieno per ogni anno di lavoro).  Nel secondo caso il datore di lavoro si aspetta una domanda di lavoro temporanea, ma è smentito dai fatti perché le condizioni del mercato migliori di quelle attese la trasformano in domanda permanente. Nel vecchio scenario avrebbe dovuto non rinnovare il vecchio contratto a tempo determinato trasformandolo in uno a tempo indeterminato. Nel nuovo scenario si tiene il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con qualche piccolo vantaggio in termini di costi di transazione non dovendo rinegoziare la forma contrattuale. Il terzo scenario è quello in cui l’attesa è per una domanda di lavoro permanente che si rivela tale. In questo caso il contratto sarebbe stato a tempo indeterminato (con possibilità di reintegro in caso di licenziamento) nel vecchio scenario e diventa a tempo indeterminato con tutele crescenti nel nuovo scenario (e possibilità di reintegro solo per licenziamenti discriminatori e disciplinari ove il giudice verifichi l’insussistenza della motivazione). Il quarto scenario è quello di un’aspettativa di domanda di lavoro permanente che invece si trasforma per un peggioramento inatteso della situazione di mercato in una necessità di lavoro temporanea. In questo caso nel vecchio scenario il datore di lavoro si trova bloccato dal rischio di reintegro mentre nel nuovo caso avrà la possibilità di licenziare per motivi economici pagando un indennizzo a chi era stato assunto con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.   Possiamo pertanto aspettarci una significativa sostituzione di contratti a tempo determinato con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti nel primo e nel secondo scenario e una maggiore flessibilità del datore di lavoro nel prendere decisioni sulla propria manodopera (soprattutto nel secondo e nel quarto scenario in cui il quadro di mercato si rivela diverso dalle aspettative). Le quattro situazioni prospettate ci dicono anche che l’effetto sul saldo totale dell’occupazione dovrebbe essere modesto. La maggiore flessibilità di movimento del datore di lavoro in alcuni dei casi prospettati si bilancerà con un minor turnover volontario di chi ha i vecchi contratti. Chi prima aveva valutato l’opportunità di cambiare lavoro infatti ci penserà due volte, per evitare di dover perdere sicurezze e passare al nuovo contratto. Poiché una parte importante dei guadagni di produttività nel sistema avviene attraverso i trasferimenti da un posto di lavoro ad un altro si tratta di un handicap che gli estensori della legge dovrebbero provvedere a correggere in qualche modo. Ad esempio con la portabilità del contratto per i lavoratori già assunti anche se questo aumenterebbe le disparità con i nuovi.  Sappiamo bene in realtà che la creazione di posti di lavoro dipende in larga parte da fattori diversi dalle caratteristiche del contratto. Francesco Daveri ha ricordato sul Corriere della Sera qualche giorno fa quello su cui battiamo da tempo, ovvero che il primo fattore che colloca il nostro paese molto indietro nella classifica di quelli in cui fare impresa è quello dei tempi della giustizia civile, quasi tripli rispetto alla media europea.  È su questo tasto che il governo dovrebbe mostrare i suoi muscoli. Oltre agli aspetti di sistema paese i fattori macroeconomici hanno un peso preponderante nel determinare i saldi occupazionali come dimostra la politica americana post crisi finanziaria confrontata con quella dell’Ue. Politiche monetarie e fiscali fortemente espansive da un lato e via del 'rigore espansivo', dall’altro hanno fatto la differenza di diversi punti del tasso di disoccupazione decidendo i destini di milioni di persone dai due lati dell’oceano. Il lato sicuramente migliore del Jobs act è il passo avanti verso un sistema con un sussidio universale di disoccupazione e un reddito minimo di cittadinanza attraverso Naspi, Asdi e Disc-coll (ovvero i sussidi per chi è licenziato, il reddito per chi versa in condizioni di povertà alla scadenza del sussidio e l’introduzione di un primo parziale sussidio anche per i lavoratori precari che perdono il lavoro). La rete di protezione sarebbe potuta essere più robusta se ad essa fossero stati destinati gli 80 euro.   Il Jobs act appare dunque essenzialmente come una razionalizzazione da un vecchio sistema dove gli alti costi di assunzione e licenziamento implicati dai vecchi contatti a tempo indeterminato erano aggirati dalle imprese accedendo alla giungla delle varie forme a tempo determinato (e il trattamento dopo la perdita di lavoro era fortemente discriminante tra chi aveva accesso alla cassa integrazione e chi no) verso un modello dove il contratto unico a tutele crescenti dovrebbe sostituire quelli a tempo determinato. Dal lato del lavoratore il cambiamento sul posto di lavoro è più psicologico che reale perché la precarietà del contratto a tempo indeterminato non è poi molto diversa da quella del contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti. Può certo sperare di convincere col tempo il suo datore di lavoro di 'essere la persona giusta', ma purtroppo il successo del matrimonio tra un lavoratore e l’impresa non dipende solo dalle sue doti, ma molto più dalle condizioni di mercato. Il successo dell’impegno del governo sugli altri fronti sarà decisivo per rendere più propizia possibile la nuova era che inizia col Jobs act.