Flussi migratori. Le migrazioni viste da chi parte. La vera libertà è poter scegliere
Tutti sono alla ricerca di una vita migliore solo la metà conosce i rischi del viaggio In un piano per l’Africa sub-sahariana il valore dello sviluppo e dell’appartenenza
Perché si parte dai villaggi dell’Africa sub-sahariana verso il Nord-Africa e l’Europa nonostante i rischi ed i pericoli? Come vengono considerati coloro che partono? Fino ad oggi queste domande sono rimaste senza risposta. La ricerca promossa dalla Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) nell’ambito di CinemArena, ha cercato di colmare questa lacuna, attraverso una serie di interviste realizzate tra 2018 e 2019 sulle conoscenze, le aspettative e i timori negli abitanti dei villaggi.
Lo studio è stato realizzato grazie alla volontà ed all’impegno della direzione e dello staff di CinemArena, un progetto della cooperazione italiana che dal 2002 promuove l’obiettivo di offrire alle comunità più disagiate dei villaggi dell’Africa subsahariana delle serate animate attraverso la proiezione di film e finalizzate a diffondere messaggi di prevenzione sanitaria, sui diritti civili e, ultimamente, sui rischi dei flussi migratori irregolari. Nel corso delle serate realizzate tra 2018 e 2019 in Senegal, Costa d’Avorio, Guinea, Gambia, Nigeria e Sudan con la partecipazione di oltre 75.000 persone, gli operatori di CinemArena, preparati prima della partenza e poi supportati a distanza da un’équipe di ricercatori, hanno somministrato a quasi 2.000 persone di 123 villaggi un questionario semi-strutturato sui valori, le opinioni e gli atteggiamenti rispetto alla partenza verso l’Europa.
Lo studio ha permesso di far emergere per la prima volta su così larga scala molti elementi interessanti, tra cui: le preoccupazioni per il futuro delle giovani generazioni; l’aspetto selettivo ed in qualche modo 'classista' del fenomeno, che riguarda individui con risorse economiche, sociali e umane tali da permettere loro di sostenere il viaggio; l’importanza delle rimesse dei migranti per il tenore di vita dei villaggi; il valore attribuito al coraggio di partire. Forte risulta l’insoddisfazione degli intervistati rispetto al reddito, alle opportunità di lavoro ed alle condizioni di vita, messe a confronto con gli standard internazionali, ormai ampiamente noti anche nelle zone interne e lontane dalle città.
Quasi il 70% degli intervistati ha dichiarato di aver pensato di lasciare il proprio villaggio o la propria zona di residenza per emigrare, o di avere famigliari che lo hanno fatto. Quelli che rientrano risultano dalla ricerca essere poco più di coloro che non tornano. In merito alle cause dei rientri, secondo gli intervistati si torna perché si è stati respinti dai Paesi di arrivo o di transito o per la durezza dell’esperienza migratoria. Circa i 3/4 dei soggetti contattati ha piena coscienza della necessità di dover pagare, in forme e modalità varie, soggetti che fungono da facilitatori, in grado di agevolare la partenza e lo svolgimento del viaggio. E per quanto riguarda i rischi, alcuni dichiarano di ignorare ogni informazione in merito (il 42,9%), ma molti indicano le malattie ed il pericolo per la vita (55,4%), la reclusione ed i maltrattamenti (58,8) ed il possibile naufragio nel Mediterraneo (39,6%), come rischi di cui si è a conoscenza.
La consapevolezza di questi rischi è più marcata tra gli uomini rispetto alle donne (55,2% versus 46,5%), e tra gli individui nella fascia intermedia di età (26-40 anni), il 55,7% dei quali ha notizia di violenze e prigionie, contro il 46,5% del più giovani (14-25) ed il 50,9% degli ultraquarantenni. Per quanto riguarda le conoscenze sui luoghi di arrivo, ben il 74% dell’intero campione di intervistati dichiara di non sapere dove si trovi l’Italia. Per ciò che attiene i problemi dopo l’arrivo, di cui si è avuta notizia, vengono citati la difficile integrazione (37,8%), seguita dalla clandestinità (23,1%) e dalla nostalgia legata alla lontananza dal paese di origine (18,8%). Particolarmente sentito è il tema del futuro lavorativo e sociale delle giovani generazioni e molti si lamentano del fatto che lo Stato sia poco attivo in tal senso. Tra i meno giovani, alcuni ritengono che i ragazzi e le ragazze dovrebbero partire solo per studiare e specializzarsi, per poi ritornare.
Rispetto alla dimensione socio-antropologica, la ricerca ha evidenziato l’ambivalenza di una mitologia della figura del migrante, visto spesso come un eroe, quando parte, e come un fallito o un eroe negativo, quando torna prematuramente o senza aver avuto successo. Soprattutto la ricerca mette in luce lo iato tra il valore positivo attribuito alla partenza ed alla ricerca di una vita migliore, con percentuali tra il 70 e l’80% del campione, da un lato, e le conoscenze molto meno diffuse sulla durata ed i pericoli del viaggio, con valori tra il 40 ed il 60% a seconda dei diversi rischi e delle diverse classi di età, dall’altro lato. Anche le 67 interviste realizzate tra ottobre 2018 e marzo 2019 con altrettanti testimoni privilegiati o stakeholder (rappresentanti di istituzioni nazionali, dell’Unione Europea, delle Ambasciate e delle Agenzie di Cooperazione dell’Italia o dei Paesi europei, organizzazioni internazionali, organizzazioni non governative e ricercatori e docenti universitari) hanno confermato la presenza di una cultura diffusa della migrazione e del viaggio come tappa della crescita e della transizione verso l’età adulta.
Quali piste di lavoro si aprano da qui in poi per una strategia migliorativa dal punto di vista degli interventi? Lo studio fa riferimento ad almeno tre possibili piste di lavoro. La prima è quella che va comunemente sotto il nome di 'Piano Marshall per l’Africa'. Come molte importanti Ong (Focsiv, Avsi e S. Egidio in primis) sostengono, per il bene comune del globo, e non solo dell’Africa, è necessario che si crei una grande alleanza mondiale per lo sviluppo dell’Africa, e che si accelerino i tempi e si migliorino gli obiettivi e le iniziative relative ai programmi ed agli stanziamenti già varati, spesso in ritardo o poco finalizzati. La seconda pista attiene al rafforzamento degli Stati e dei governi locali. Poco sarà possibile fare se non si lavorerà sul piano politico ed istituzionale per il rafforzamento della classe dirigente dei Paesi interessati, della borghesia imprenditoriale e produttiva, della pubblica amministrazione.
La terza pista attiene più specificamente all’ambito sociale ed antropologico. Come dice Mario Giro nel suo 'Global Africa', occorre insegnare ai giovani africani ad amare la propria terra e a lavorare per ricostruire una identità ed un attaccamento al proprio paese, rendendo l’emigrazione una scelta e non un obbligo o una necessità cui non ci si può sottrarre. Il che significa per ciò che riguarda il mondo sviluppato continuare nell’opera di monitoraggio ed in quella della costruzione di una consapevolezza sempre maggiore, specie tra i giovani, dei rischi del viaggio e di quelli legati all’inserimento nelle società di arrivo. Per puntare ad una situazione nella quale, anche se non ci sono alternative di tipo lavorativo, e se si vuole fuggire dalle ristrettezze economiche e culturali della propria famiglia e del proprio clan, si possa fare affidamento su di un orgoglio della appartenenza ad una cultura millenaria del continente africano, e sulla messa in campo di valutazioni e scelte legate a questo tipo di orgoglio, e non solo e genericamente alla disperazione o alla voglia di sottrarsi ai vincoli locali.