Opinioni

Manganellate a Pisa e Firenze. Il sottile confine da non superare per non perdere tutti

Danilo Paolini sabato 24 febbraio 2024

Quando una persona in buona salute entra in carcere e ne esce morta, la prima responsabilità da ricercare è in capo allo Stato, perché la vita di quella persona gli era affidata affinché scontasse la pena conservando la propria incolumità. Allo stesso modo, quando un cittadino viene ferito o picchiato dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione, vanno indagate le eventuali responsabilità delle autorità pubbliche. Non a causa di un pregiudizio negativo nei confronti dei corpi di polizia - come pure è stato sostenuto da qualche sparuto esponente del centrodestra in cerca di facile quanto sterile polemica - ma proprio perché il loro compito è far rispettare la legge a tutela, non a minaccia, di tutti i cittadini.

Le azioni di ordine pubblico possono essere (e spesso lo sono state) molto energiche, con l’utilizzo anche di lacrimogeni e idranti, se rivolte verso dimostranti violenti, armati di sassi, bastoni, caschi e bottiglie molotov.

Ma venerdì scorso, a Firenze e a Pisa, non si è visto nulla del triste armamentario della violenza di piazza. Si sono visti, invece, i volti di giovani e giovanissimi, alcuni ancora imberbi e molto probabilmente digiuni di proteste, i loro sguardi increduli e le loro mani alzate alla prima raffica di manganellate.

È vero, i loro cortei per la causa palestinese non erano autorizzati, ma è davvero difficile credere che non ci fossero altri metodi per sbarrare loro il passo verso il Consolato Usa o Piazza dei Cavalieri, con una diversa e più avveduta gestione della situazione. E non basta certo il «contatto» con il cordone formato dal Reparto mobile a giustificare, come ha cercato di fare la Questura pisana, quanto accaduto dopo.

Gli scontri con gli studenti - ANSA

Da qui lo sconcerto diffuso, che ha indotto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’arcivescovo di Pisa Paolo Benotto a esprimere la loro preoccupazione. Del resto, la delega dell’uso della forza allo Stato è uno dei capisaldi del contratto sociale, perché mette fine allo stato di natura dove vige la legge del più forte, a condizione che non venga mai oltrepassato il confine (più sottile di quanto si possa pensare) che separa lo stato di diritto dallo stato di polizia. E quel confine è costituito proprio dalla proporzionalità della risposta che si dà all’effettivo pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblici.

Negli ultimi otto giorni, nel nostro Paese, per ben due volte è sembrato che quella proporzionalità venisse infranta: domenica 18 febbraio, quando sono stati identificati i cittadini che a Milano deponevano fiori in memoria del dissidente russo Alexeij Navalny, morto nella prigione siberiana di Putin; due giorni fa, con le manganellate a Firenze e a Pisa.

C’è da auspicare che ci si fermi qui, perché - come ha spiegato il capo dello Stato al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - « l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza» nella libertà. L’ideale sarebbe metabolizzare il concetto, apparentemente scontato in una democrazia liberale ma difficile da digerire in un clima di permanente e generalizzata polarizzazione come quello in cui siamo immersi, che si tratta di cittadini in divisa di fronte (non contro) a cittadini che esercitano il diritto costituzionale a riunirsi in pubblico («pacificamente e senza armi», articolo 17) per manifestare libere opinioni. Nel rispetto delle leggi da parte di tutti ma anche, appunto, della proporzionalità tra effettivo pericolo e risposta della forza pubblica. Lo ha detto bene proprio il segretario generale di un sindacato di Polizia, il Siulp, Felice Romano: «Quando si verificano fatti come quelli di Firenze e di Pisa abbiamo perso tutti». Punto e a capo. Speriamo.