L'intervista. «Le macchine imitano il cervello umano? È preoccupante il contrario»
Farle domande è quasi impossibile: le anticipa tutte. Aggancia lo sguardo a una mezza parola – in effetti bastano una sillaba, una pausa, un riposizionamento dell’interlocutore sulla poltrona sistemata di fronte alla sua – e intuisce, elabora, risponde. Non ha capacità divinatorie, è solo, si fa per dire, il suo cervello. Federica Mormando era una bambina quando le fecero il primo test del quoziente intellettivo. Arrivati i risultati, gli esaminatori le si misero intorno a cerchio con le braccia conserte e la fronte corrucciata, silenziosi come di fronte a una specie aliena tutta da studiare. Non si accorsero che in realtà lei, mente prodigiosa dai numeri eccezionali (corrispondente al massimo sull’attuale scala Wisc), aveva già iniziato a studiare loro. Insieme, ovviamente, a tutto il “pacchetto” dell’iperdotazione intellettiva. Cosa che avrebbe poi fatto per tutta la vita, qualificandosi come la psichiatra e psicoterapeuta più accreditata nell’individuazione e nello sviluppo dell’alto potenziale cognitivo.
Nel 1997 Garri Kasparov perse la sfida con Deep Blue, il supercomputer dell’Ibm, e la prese piuttosto male. Oggi i sistemi informatici sono sempre più abili a simulare il pensiero e il comportamento umani: la chiamano intelligenza artificiale e suscita molta preoccupazione. Giustificata?
Giustificata, sì, ma nel senso perfettamente contrario a quello dato: non dovrebbe farci paura il fatto che le macchine stiano imitando il cervello umano quanto, piuttosto, che il cervello umano si stia plasmando sulle macchine. L’intelligenza artificiale è capace di generare testi, fotografie e video fittizi difficilmente distinguibili dalla realtà, ma l’inganno, se praticabile, è pericoloso solo in mancanza di pensiero critico. Il punto è proprio questo: il pensiero critico, come quello complesso, non vengono più esercitati. E di questo sì, dovremmo preoccuparci.
Un attimo: intende dire che il cervello umano si sta plasmando sulle macchine?
Sì. Siamo colpiti da una grandissima quantità di input che ci portano a sviluppare solo il pensiero binario, quello primitivo, tipico dei computer: sì-no, sì-no. La complessità è quasi insopportabile. La scuola propone spesso quiz a risposta multipla, il che esclude in partenza il pensiero elaborato, la dimensione creativa. Se tu vuoi offrire una soluzione che abbia delle varianti, che contempli il tuo punto di vista personale, la tua interpretazione, la tua originalità, sbagli. Insomma: se vuoi divertire la tua cultura e la tua intelligenza, non puoi farlo. È la logica dei giochi al computer: o vinci o perdi, A o B, codice binario. L’allenamento è solo alla velocità nella ripetizione. Oltretutto, come ha ottimamente spiegato Lamberto Maffei nel suo libro “Elogio della lentezza”, va considerato che le sollecitazioni imposte dai videogiochi hanno una velocità superiore a quella della trasmissione sinaptica, e quindi, di fatto, impediscono il pensiero naturale, che è un pensiero lento. Per inciso: le persone particolarmente dotate non hanno, nei test, un quoziente di velocità molto alto proprio perché, semplicemente, pensano. Prima di dare una risposta, pensano.
Non è sempre stato così?
No, perché solo da qualche anno, proprio per la crescente “robotizzazione dell’umano” – siamo costantemente chiamati a rispondere con immediatezza a email, Sms, messaggi WhatsApp, a capire e ad adattarci alle nuove App, agli aggiornamenti informatici – la velocità di reazione è considerata estremamente importante e ha assunto un suo specifico valore nelle valutazioni del Q.I.
Ci sono conseguenze evidenti sulle nuove generazioni?
Come no. C’è un peggioramento generale che registro quotidianamente nei bambini che vengono qui (nello studio di psicoterapia ndr). E non solo attraverso i test del Q.I., i cui risultati stanno calando. Hanno difficoltà nella comprensione del testo, ma anche del parlato. Ascoltano le parole, ma se tu chiedi: lo sai cosa significa questo? Ti rispondono di no. E se domandi perché non ti hanno chiesto il significato di quella parola, ti guardano ammutoliti. Hanno sempre meno curiosità. E curiosità non è il banale perché-perché-perché? Curiosità è l’entusiasmo della scoperta, una spinta profonda che si educa, come la libera iniziativa, la ricerca. È un esercizio che non si fa più, in nessun contesto, educativo o professionale che sia. Devi rispondere ai quiz, reagire a un post dopo aver letto due righe di un argomento. Punto. Inoltre, molto materiale di apprendimento è in formato video, se possibile breve. Tutto è bidimensionale. Non c’è interazione. Non c’è più il concetto della fatica, dello sforzo necessari per raggiungere un risultato. E non c’è allenamento alla concentrazione. Piuttosto il contrario: si esercita la non-concentrazione, l’abilità di rispondere a stimoli multipli contemporaneamente. L’unico ambito in cui vedo un costante esercizio alla concentrazione e alla fatica è lo sport agonistico, ma tutto è finalizzato a una specifica performance.
Però i bambini e i ragazzi, oggi, hanno molte opportunità: mille canali televisivi, Internet, possono viaggiare. Apprendono tante cose. Sanno tante cose.
No: sono “contenitori” di cose, ma generalmente non sanno metterle in critica perché non hanno formazione al ragionamento. Se tu, da piccolo, non vieni abituato alla logica lineare, all’analogia, all’approfondimento, all’espressione, nemmeno lo sai che qualunque informazione tu riceva la puoi valutare, elaborare, contestualizzare, arricchire. Settimana scorsa avevo qui un bambino, molto intelligente, che aveva tante nozioni: il Big Bang, l’acqua, l’elettricità, l’ambiente, lo spazio e il tempo. Ma erano informazioni completamente scollegate, senza un substrato: non è riuscito nel compito di creare un pensiero coerente amalgamandole. Quello che, per esempio si faceva una volta con il classico tema in classe. I giovani oggi sono sottoposti a un bombardamento informativo che non dà loro il tempo, letteralmente: non dà loro il tempo, di fermarsi a riflettere. Il che facilmente porta, in età adulta, a un’omologazione di pensiero che tende a polarizzarsi su idee e fronti contrapposti. Lo stiamo verificando quotidianamente. E qui torniamo al tema dell’Intelligenza artificiale: può essere “artificialmente perfetta” fin che si vuole, ma se io so ragionare con la mia testa, con riferimenti e valori ben consolidati, ho tutte le armi per affrontarla. Anche Internet, strumento preziosissimo, può essere pericoloso. Anche gli influencer possono essere pericolosi. Anche i social, e ne abbiamo purtroppo conferme tragiche in questi giorni. Ma il problema, come detto, sta a monte.
Lei descrive un gap generazionale preoccupante: è recuperabile?
Nel Dopoguerra ci sono stati una spinta alla crescita e un entusiasmo formidabili, che hanno portato i nostri genitori e i nostri nonni a costruire una società nuova, migliore. Quella generazione ha avuto un centesimo della nostra scolarizzazione e un millesimo delle nostre opportunità, eppure ha saputo guardare avanti con lungimiranza. Molti bambini facevano solo le elementari ma ricevevano una formazione decisamente superiore a quella di tanti studenti di oggi. C’era la felicità di conquistarsi qualcosa con sacrificio. Oggi ci sono educatori e agenzie di educazione, dentro e fuori la scuola, che stanno provando a recuperare questa prospettiva. Pochi ma ci sono. Quindi, chissà.
Chi è
Psichiatra, psicoterapeuta di formazione adleriana, giornalista, dagli anni Ottanta, Federica Mormando studia l’iperdotazione intellettiva. Ha fondato la scuola Emilio Trabucchi per i bambini particolarmente dotati, Eurotalent Italia e Human Ingenium, dedicati all’individuazione e allo sviluppo dell’alto potenziale cognitivo. Ha pubblicato “Altissimo potenziale intellettivo: strategie didattico-educative e percorsi di sviluppo dall’infanzia all’età adulta” (Erickson). Fa parte della commissione per la formazione degli insegnanti del World Council for Gifted and Talented Children. Con le edizioni Kimerik, ha pubblicato recentemente “Si/No. On/Off”, un’interpretazione originale della storia e un appello contro la guerra.