Diversi ma vicini. Due Papi uniti dal vocabolario dello spirito ma molto differenti tra loro. Perfettamente a suo agio tra la gente il primo, più introspettivo e tormentato, quasi timido il secondo. Eppure quello che unisce Francesco a Paolo VI non è solo affetto di facciata o la stima, per così dire istituzionale, che un Pontefice deve a chi lo è stato prima di lui. Perché puoi sentire pulsare il cuore del pastore in quel continuo richiamo, nelle parole come nei gesti, agli insegnamenti di Montini, alla sua sapienza. E c’è tanto di vita personale nel confessare il bene ricevuto dai discorsi che il Papa lombardo tenne a Manila piuttosto che a Nazaret. Soprattutto c’è tutta l’ammirazione dell’innamorato di Cristo nel riconoscere il cuore grande di Paolo VI nel travaglio della Chiesa post-Concilio, il suo amore totale a Gesù, la necessità di testimoniarlo come «centro della storia e del mondo», «uomo del dolore e della speranza», «pienezza eterna della nostra esistenza».Non è un caso allora che il Messaggio per la Giornata missionaria mondiale sia stato pubblicato ieri, festa della Trasfigurazione e 35° anniversario della morte di Paolo VI a Castel Gandolfo. Al centro, l’essenza stessa della missionarietà che secondo Papa Bergoglio non rappresenta solo una dimensione programmatica della vita cristiana ma anche, per così dire, paradigmatica. Una distinzione non da poco, sottolineata già a Rio de Janeiro nel discorso al Celam, il 28 luglio scorso. Perché se programmare richiama realizzazioni e obiettivi concreti, sceglierlo come paradigma significa andare oltre. Vuol dire porre in chiave missionaria le attività abituali della Chiesa, declinare nel senso dell’annuncio e della testimonianza ogni suo impegno pastorale. È urgente, spiega Francesco, far risplendere nel nostro tempo la vita buona del Vangelo, aiutare gli uomini, tutti gli uomini, a incontrarlo. Senza imposizioni, ma con la gioia che deriva da una scelta di libertà.«L’impegno di annunziare il Vangelo agli uomini del nostro tempo animati dalla speranza, ma, parimenti, spesso travagliati dalla paura e dall’angoscia – scrive Paolo VI nell’<+corsivo>Evangelii nuntiandi<+tondo> – è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità». Per riuscirci, però, avverte Papa Bergoglio, occorre uscire dal proprio recinto e portare la Parola anche nelle periferie, «soprattutto a chi non ha ancora avuto l’opportunità di conoscere Cristo». Perché se si rimane nel Signore, si esce da se stessi. E restargli fedeli significa lasciarsi cambiare, venirne trasformati, rinnovati. Esaltati. La missionarietà allora non è solo questione di luoghi, di popoli, di culture, ma riguarda innanzitutto il cuore, di ogni uomo e di ogni donna. Detto in altro modo, tutti i battezzati sono chiamati al coraggio e alla gioia di «proporre, con rispetto» l’incontro con il Signore, di testimoniarlo, di farsi portatori del suo Vangelo. Iniziando, naturalmente, dall’interno della comunità ecclesiale, a dispetto delle resistenze che persino lì si possono trovare.Nella riflessione di Papa Francesco infatti un punto risulta molto chiaro: non si può annunciare Cristo senza la Chiesa. E qui di nuovo il rimando immediato è all’<+corsivo>Evangelii nuntiandi<+tondo> a quello che il 22 giugno scorso Francesco ha definito «il documento pastorale più grande scritto fino a oggi». «Quando il più sconosciuto predicatore, missionario o pastore – scrive infatti Papa Montini – annuncia il Vangelo, raduna la comunità, trasmette la fede, amministra un Sacramento, anche se è solo, compie un atto di Chiesa». Una comunità di fratelli e sorelle in cui sono rovesciate le logiche del mondo, che mette al primo posto gli ultimi, gli umili, i più poveri. Una casa, una famiglia che nel servizio a Cristo Signore ha la garanzia dell’amore autentico. Una scuola dove imparare, conclude Francesco citando ancora una volta un’amatissima espressione di Paolo VI, «la dolce e confortante gioia di evangelizzare».<+copyright>