Le guerre e il senso del perdono. C'è rimasta solo la preghiera
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, intervenendo lo scorso 20 agosto al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, ha parlato della drammatica situazione in Terra Santa, segnata dal conflitto scaturito dall’azione terroristica di Hamas lo scorso 7 ottobre, con la morte di oltre 1.200 fra civili e militari israeliani e il rapimento di circa 250 ostaggi, di cui la maggior parte ancora in mano ai rapitori, e la risposta dello Stato ebraico nella striscia di Gaza, che ha prodotto finora decine di migliaia di morti. Testimoniando al tempo stesso l’amore al popolo in mezzo al quale è pastore e la fede nel Dio unico che unisce le religioni del Libro, con grande realismo il Patriarca ha affermato alla conclusione del Suo intervento: «La guerra finirà - certo - e spero che coi negoziati si arrivi a qualcosa, anche se ho un po’ di dubbi: ma sappiamo tutti che questo negoziato è l’ultimo treno e che se non arriva un cessate il fuoco sarà drammatico, si avrà una degenerazione. Ci è rimasta solo la preghiera». Agli occhi di chi non crede nel Dio destinatosi a noi con la Sua rivelazione e fedele nell’amore queste ultime parole possono sembrare una resa alla durezza della realtà, più forte di ogni volontà di pace e di giustizia da raggiungere. Per chi le valuta con fede, esse richiamano invece un duplice orizzonte, cui non rinunciare mai, neanche in un’ora così drammatica della storia. Il primo orizzonte è quello che fa guardare alla vicenda umana nella prospettiva dell’assoluto primato di Dio, cui nulla è impossibile.
In una stagione non meno difficile della vicenda umana in cui la voce del corifeo del cosiddetto “protestantesimo liberale” Adolf von Harnack invitava alla fiducia incondizionata nel progresso umano e nella pace ad esso conseguente, il giovane teologo Karl Barth non esitò a definire il 4 agosto 1914 come il giorno oscuro (“dies ater”), perché quel giorno von Harnack rese pubblico un documento, firmato da 93 intellettuali, con cui l’“intellighenzia” tedesca appoggiava la politica di guerra del Kaiser. Questo testo suscitò in Barth la presa di coscienza della fine dell’universo liberale, dominato dall’idea del protagonismo assoluto del soggetto umano, celebrato in tutte le sue potenzialità. Il “no” alle presunzioni ideologiche di poter costruire un mondo migliore con le sole forze umane si traduceva in lui nella forte affermazione della differenza e dell’alterità di Dio, che può e potrà intervenire nella storia a Suo piacimento, anche ribaltando le logiche delle letture umane, solo umane.
Questa presa di posizione non intendeva certo esprimere un pessimismo irriducibile, quanto piuttosto manifestare la convinzione che la tappa negativa del cammino umano dovrà e potrà essere superata grazie all’azione divina a favore delle creature. Sarà lo stesso Barth a confessarlo in una sorta di rilettura della sua opera, consegnata alla conferenza del 1956 intitolata L’umanità di Dio: «Ciò che all’incirca quarant’anni or sono cominciava impetuosamente ad imporsi a noi, era più la divinità che l’umanità di Dio: l’insormontabile altezza e la distanza, il totalmente altro con cui l’uomo ha a che fare quando pronuncia il nome di Dio, la maestà del Crocifisso... Il nostro compito oggi è questo: il riconoscimento dell’umanità di Dio, sulla base del riconoscimento della sua divinità e proprio a partire da esso». Riconoscere l’umanità di Dio vuol dire oggi - in Israele, come a Gaza, in Libano come in Ucraina - restare aperti all’“impossibile possibilità” che l’Eterno può sempre riservarci, e a cui aprono appunto lo sguardo della fede e l’invocazione umile e accogliente della preghiera.
Un secondo orizzonte cui guardare come fonte di un nuovo e urgente impegno, che deve assumere forma in Terra Santa e in ogni luogo di conflitto, è quello del perdono. Ha affermato il Patriarca Pizzaballa: «La comunità cristiana deve portare dentro il dibattito pubblico la possibilità del perdono. Forse ora non si può fare. Bisogna attendere e lavorare a livello personale, comunitario e pubblico». E ha aggiunto: «Parlare di perdono in Terra Santa non è un’astrazione. Giustizia, perdono, sono per noi parole importanti, difficili e che toccano concretamente la carne e la vita delle persone». Se questo può apparire astrazione agli occhi di chi non crede, per la fede cristiana non è così: essa «non può essere separata dall’idea di perdono. La fede è l’incontro con Cristo che ti salva e perdona», e Lui «sulla croce non ha atteso che si facesse giustizia per perdonare. Ha perdonato». Certo, «perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male che si sta compiendo.
Il perdono chiede dinamiche che vogliono tempo, un processo di guarigione e un tempo di riconoscimento del male e dell’ingiustizia commessa. Il perdono ha bisogno anche di una parola di verità... Non è semplice. Per un palestinese oggi perdonare significa giustificare quello che sta accadendo. Non può farlo. Deve attendere. Ma come pastore - ha concluso Pizzaballa - devo ricordare che la giustizia senza perdono diventa recriminazione. Può diventare vendetta. Lo scopo non è relegare l’altro in un angolo, ma superare questa situazione: e questo lo può fare solo il perdono». Credere nella forza del perdono è proprio di chi nella preghiera ha chiesto e ottenuto perdono da Dio: perciò la preghiera è e resta la grande scuola di umanità, dove imparare tutti ad accoglierci gli uni gli altri, a chiedere e offrire il perdono, a sentirci amati dal Padre di tutti per imparare a riconoscerci uniti dal Suo amore, più grande di ogni nostra misura. Anche così, “c’è rimasta solo la preghiera”, perché la fede sa che solo essa ci potrà salvare!