«Ex Africa semper aliquid novi» scriveva Plinio il Vecchio, ma la sua tesi sembra essere smentita dalla cronaca, viste le tragiche vicende congolesi a Goma e dintorni, sintomatiche del malessere ricorrente, anzi persistente, che attanaglia vasti settori del continente africano. Ma sarà mai possibile che milioni di persone, uomini e donne, vecchi e bambini, siano ostaggio, in quelle terre solo geograficamente lontane, di questo e quel crudele movimento ribelle, di questo o quel famigerato signore della guerra? Poco importa che si tratti di Laurent Nkunda o Joseph Kony, la verità è che l'Africa continua a rappresentare nell'immaginario nostrano la metafora delle disgrazie che assillano il nostro povero mondo. Sì, quasi vi fosse una sorta d'inesorabile destino foriero di sventure a non finire. Eppure, per quanto grandi possano essere le sciagure dal Nord Kivu alla Somalia, dal Darfur al Ciad, occorre sforzarsi di andare al di là delle solite percezioni superficiali di certa comunicazione che tende a fare di ogni erba un fascio, banalizzando eventi, anche cruenti, quasi vi fosse una propensione alla violenza da parte di popoli prelogici e dunque necessariamente violenti. L'esperienza di tanti missionari e missionarie che hanno speso la vita per la causa dell'evangelizzazione ci insegna che il copione della Storia è stato travisato determinando, attraverso le guerre o sostenendo regimi dittatoriali, quei meccanismi di sudditanza che inibiscono il diritto-dovere di cittadinanza di tanta umanità dolente. In questi anni si è molto parlato delle possibili modalità per garantire il riscatto o in alcuni casi il consolidamento dei processi democratici in Africa, in riferimento all'orgoglio di un continente che, nelle sue molteplici espressioni " sociale, politica, economica e religiosa " avverte il bisogno di voltare pagina, soprattutto a livello di società civile. E, come in una sorta di gioco degli specchi, le risposte opposte alla sfida dello sviluppo " reazionari da una parte, terzomondismi dall'altra " sembrano eludere nei fatti, più che nelle parole, una delle questioni centrali dei rapporti Nord-Sud: il rilancio della cooperazione allo sviluppo nei confronti di una "Nigritia", parafrasando il santo Daniele Comboni, che non mendica affatto la beneficenza di noi ricchi Epuloni, ma invoca eque e giuste relazioni sia al suo interno, che con il resto del mondo; dunque in una battuta, giustizia "ad intra" e "ad extra", dentro e fuori dei suoi confini. L'Africa d'altronde non può continuare a passare con la solita disinvoltura imposta dai ritmi della globalizzazione da un'emergenza all'altra, quasi che il fenomeno della cronica instabilità dei governi facesse inesorabilmente parte del suo Dna. Ne consegue l'esigenza, a livello internazionale, di un'azione immediata ed efficace per contrastare le cause che determinano la conflittualità cronica sia nella Regione dei Grandi Laghi come anche nel Corno d'Africa. Da questo punto di vista sarebbe davvero auspicabile, anzi "doveroso" che il nuovo "numero uno" della Casa Bianca, afro o indeoeuropee che siano le sue origini, mettesse quel continente tra i primi punti della sua agenda, nella consapevolezza che continuare a parlare senza concludere nulla sarebbe un mero esercizio di retorica e un procrastinare nel tempo le proprie responsabilità. È difficile pensare che in un mondo in cui si spendono oltre 1300 miliardi di dollari all'anno in armamenti non si trovino i fondi necessari a salvare la vita di chi continua a morire per guerre, inedia e pandemie.