Opinioni

Dopo il blocco di Suez. Le grandi navi portacontainer pericolo globale

Giuseppe Pennisi mercoledì 14 aprile 2021

La Even Given bloccata nel canale di Suez

Per qualche ora si è temuta una corsa ai supermercati per fare incetta di carta igienica. Una parte importante del carico della Ever Given, la grande nave portacontainer che a marzo ha bloccato per giorni il canale di Suez, era carta igienica manufatta in Cina e spedita a Rotterdam, perché prendesse la via che porta ai supermercati europei. In questo dettaglio, mentre un tribunale egiziano si è mosso per chiedere un risarcimento di 900 milioni di dollari dopo aver autorizzato il sequestro della nave, ci sono tutte le contraddizioni di una crisi annunciata: l’International Transport Forum (un’organizzazione che opera nell’ambito dell’Ocse e ai cui lavori in passato ho partecipato), per anni ha lanciato avvertimenti.

Il Forum temeva le conseguenze dell’aumento della capacità media delle grandi navi per il trasporto merci. La Ever Given, che batte bandiera panamense, è stata costruita nei cantieri navali giapponesi della Luster Maritime & Higaki Sangyo Kaisha, che ne hanno la proprietà, ed opera in leasing per la Evergreen Marine, che ha la propria sede A Taoyuan City, Taiwan. È più lunga dell’Empire State Building di New York e della Torre Eiffel di Parigi, e la capacità, per dare un’idea, di trasportare mobilio ed elettrodomestici per 22.000 appartamenti di 150 metri quadrati ciascuno. Questi dati sono più eloquenti delle statistiche tecniche della marina mercantile. La Ever Given trasporta in gran misura beni prodotti non tanto nella piccola Taiwan, quanto nella Repubblica Popolare Cinese.

Perché la crisi era annunciata? Le determinanti principali sono due, una a carattere strettamente trasportistico e una che riguarda gli aspetti di fondo – i fundamentals – dell’integrazione economica internazionale. Per decenni i cantieri navali, soprattutto dell’Estremo Oriente, hanno costruito navi sempre più grandi per soddisfare l’appetito dei Paesi occidentali di beni di consumo (dall’elettronica, all’arredamento, all’abbigliamento, ai giocattoli ed alla carta igienica) la cui manifattura, ad alta intensità di lavoro, si è gradualmente localizzata dove la manodopera costa poco ed a volta nulla (i 'centri di formazione' degli Uiguri e dei Tibetani, per fare alcuni drammatici esempi). L’80-90% di questo trasporto avviene via mare. Per unità di container che può trasportare, più una nave è grande, e meno costa costruirla e mantenerla operativa. Attualmente sui mari mondiali circolano 133 giganti dimensioni analoghe alla Ever Given e un’altra cinquantina sono in costruzione.

Tutto questo ha implicazioni molto serie, sia per la marina mercantile sia per i porti. Non si tratta solo dei rischi elevati di intasamento (il 25% circa di queste navi giganti transita o per il Canale di Suez o per quello di Panama), ma anche del pericolo che si formino oligopoli collusivi tanto nella marina mercantile quanto nei porti. Sono relativamente pochi, infatti, gli operatori attivi nel settore dei giganti del mare, e possono mettersi facilmente attorno a un tavolo per definire insieme tariffe e protocolli di servizio. Analogamente, non sono numerosissimi i porti in grado di diventare più larghi e più profondi per ospitare tali navi e offrire servizi a terra e collegamenti efficienti. Anche in questo caso, l’oligopolio è, a volte, quasi naturale. La portualità di un Paese come l’Italia, pur lanciato, nel Mediterraneo è in gran misura esclusa da questa tipologia di trasporto. Già nel 2015, il rapporto dell’International Transport Forum avvertiva peraltro che l’industria delle navi giganti stava per entrare in una fase di rendimenti decrescenti.

Più complesso è il problema della localizzazione di numerose produzioni industriali in Paesi, come quelli dell’Estremo Oriente (in primo luogo la Cina), che sono lontani dai Paesi dove vengono consumate. Ciò riguarda non solo prodotti a bassa tecnologia, ma in modo crescente i semilavorati. Ad esempio, la Cina tratta il 72% del cobalto mondiale necessario per costruire le batterie delle auto elettriche. Oltre metà dei semiconduttori di qualità sono manu-fatti in Corea del Sud e a Taiwan. Per mettere insieme un iPhone, Apple deve contare su forniture puntuali da 49 Paesi. Il vaccino Pzifer ha ben 5.000 fornitori dislocati in tutto il mondo. È la globalizzazione, bellezza! si potrebbe dire. Tuttavia, l’integrazione economica internazionale richiede catene d’approvvigionamento efficienti.

Sono necessarie decisioni non facili di politica industriale se, ad esempio nell’Unione Europea (Ue), si intendessero incoraggiare alcune filiere produttive a restare nel continente al fine di assicurare certezza di forniture. A dimostrarsi particolarmente attiva in ambito Ue è stata la Francia, che in questa materia ha avanzato diverse proposte, come il 'Rapport Beffa' del 2005 e il 'Rapport Gallois' del 2012 (Beffa e Gallois sono i nomi rispettivamente di un noto industriale e di un celebre tecnocrate). Nessuno dei due documenti ha però ottenuto particolare attenzione da parte degli altri Stati dell’Ue. Più di recente, di fronte alla pandemia, sempre la Francia ha insistito perché una quota del mercato dei vaccini venisse assicurata a un’impresa “solo europea”, la Sanofi, che però non ha fatto molti progressi nello sviluppo del prodotto e dunque concederà i propri impianti per la produzione dello Pfizer Biontech.

La strada è lunga e impervia. Nel frattempo, è giocoforza continuare ad utilizzare i giganti del mare, tenendo conto dei rischi che ciò comporta, tra cui quelli connessi all’elevatissima automazione dei sistemi di navigazione e pilotaggio che li rendono sempre più esposti ad attacchi informatici con malware potenzialmente in grado di mettere fuori uso i sistemi di comando e controllo, di deviarne la rotta o impedirne il movimento. La diversificazione è di norma il modo di ridurre i rischi. Nella rotta tra l’Oriente e l’Europa, ci sono due possibilità che meritano di essere esplorate per il trasporto merci senza dover doppiare il Capo di Buona Speranza e passare necessariamente per il canale di Suez, il cui ampliamento è stato inaugurato, in pompa magna, il 6 agosto scorso. Sono più macchinose del passaggio per Suez, ma sarebbero complementari o integrative, e non sostitutive del canale.

La prima sarebbe multimodale. Parte delle navi giganti attraccherebbero al porto di Mombasa, di recente migliorato con il supporto cinese. Da lì le merci andrebbero in ferrovia sino a Lagos, da dove ripartire via mare verso i grandi porti europei. È una possibilità tecnicamente fattibile: ricordo un bel viaggio tra Nairobi e Mombasa in vettura letto-ristorante in un treno che trasportava balle di tabacco dagli altopiani del Kenya al porto. Occorre completare la rete in alcuni punti. La China Road and Bridge Corporation (Crbc) sta ammodernando una ferrovia che da Nairobi proseguirà fino a Kampala (Uganda) dove si diramerà per Juba (Sudan meridionale) e per Bujumbura (Burundi), passando da Kigali (Ruanda). La ferrovia dell’Africa orientale non è l’unico grande progetto infrastrutturale di trasporti avviato dai cinesi in Africa. Restando in ambito ferroviario, Pechino sta anche costruendo la nuova linea tra Kaduna e Abuja, in Nigeria.

È quindi ipotizzabile un collegamento tra Kigali e Lagos. Non mancano serie difficoltà politiche nel fare collaborare tanti Stati che – come è noto – non si amano. L’altra possibilità è il trasporto ferroviario da Pechino a Mosca e quindi ad Amburgo utilizzano la Trans Manciuria, la Transiberiana e le reti che dalla capitale della Federazione Russa conducono ai porti europei. Un tragitto che può essere percorso in circa una settimana. È doveroso infine ricordare un progetto italo-egiziano del 1985 che prevedeva non l’ampliamento ma la costruzione di un secondo canale parallelo a quello esistente. In parte sarebbe stato finanziato a valere sui fondi della cooperazione italiana allo sviluppo. Cambiarono i governi e le priorità. Non se ne fece più nulla. Con il senno di oggi, si trattava di un progetto lungimirante.