Opinioni

Francesco e un mondo senza pace. Tutte le nostre aperte ferite

Fulvio Scaglione venerdì 27 dicembre 2019

«Rischiarare le tenebre», ha scritto papa Francesco nel messaggio diffuso prima della benedizione natalizia Urbi et Orbi, messaggio che era espresso in forma congiunta con il primate anglicano Justin Welby e con l’ex moderatore della Chiesa di Scozia John Chalmers. Un compito, questo, che investe tutti gli uomini di buona volontà ma, in misura particolare, «i governanti e la comunità internazionale» che hanno il compito istituzionale, e quindi il dovere, di «trovare soluzioni che garantiscano la sicurezza e la convivenza pacifica dei popoli».

C’è nei discorsi del Papa una semplicità che potremmo definire micidiale. Perché senza parole grosse o complicate, Francesco indica a noi tutti, cittadini preoccupati per il proprio Paese e uomini e donne che hanno a cuore le sorti del pianeta, le cose da fare e l’obiettivo da raggiungere. In un modo che non è accusatorio, ma è così chiaro da annientare alibi, giustificazioni o scuse. Nel messaggio speciale, il Papa ha ricordato il Sud Sudan e ha ribadito il desiderio di visitarlo, appena saranno ristabilite le condizioni minime sufficienti per un simile viaggio. Il Paese, diventato indipendente nel 2011, soffre dal 2013 per una guerra civile che ha già provocato, secondo un rapporto della London School of Hygiene and Tropical Medicine, quasi 400mila morti. Nel settembre del 2018 le parti in conflitto hanno firmato un accordo che, al momento, non ha portato la pace ma altre violenze, soprattutto a danno dei civili.

Nel suo discorso della mattina di Natale, papa Francesco ha affrontato il caso della Siria, da dieci anni piagata da una guerra per procura che ha portato decine di Paesi a combattere in territorio siriano, l’Iraq «attraversato da tensioni sociali» e il Libano «perché possa uscire dall’attuale crisi», invocando «luce» sull’intera Terra Santa. C’è stato poi il riferimento allo Yemen, «provato da una grave crisi umanitaria», con uno speciale ricordo per i bambini, prime vittime della guerra. Quindi il Papa ha espresso vicinanza ai popoli africani colpiti dalle calamità naturali, dalle persecuzioni religiose, dalle malattie e dal terrorismo, in particolare a quelli di Burkina Faso, Nigeria, Niger e Mali. E ha rivolto un pensiero colmo d’affetto «alla cara Ucraina», che ancora aspetta una pace definitiva, e «al caro popolo venezuelano», investito da tensioni che l’hanno portato sull’orlo della guerra civile.

Dovremmo a questo punto fare un esperimento e confrontare i punti di crisi indicati dal Papa quest’anno con quelli indicati nel 2018. Scopriremmo che anche allora l’attenzione era rivolta alla Siria e allo Yemen, all’Ucraina e al Venezuela. E all’Africa dove, diceva un anno fa il Papa, «milioni di persone sono rifugiate o sfollate e necessitano di assistenza umanitaria e di sicurezza alimentare». Con sullo sfondo il tema dei migranti, ribadito anche quest’anno, e soprattutto dell’ingiustizia «che li obbliga ad attraversare deserti e mari, trasformati in cimiteri».

Difficile credere che il Papa non sia il primo ad accorgersi di questo. In realtà Francesco mette tutti noi, e in primo luogo appunto «i governanti» e «la comunità internazionale», di fronte a uno specchio. Quello che riflette l’inazione, le esitazioni, le speculazioni, gli interessi politici ed economici che si frappongono alla soluzione delle crisi.

Anni e anni di guerra in Siria, nel Sud Sudan, nello Yemen, in Ucraina. Una crisi feroce in Venezuela e problemi strutturali in una lunga serie di Paesi africani costretti poi a lanciare le loro risorse umane migliori in viaggi della disperazione verso un’Europa che non sa e spesso non vuole nemmeno accoglierle. È questo che dobbiamo affrontare? Dobbiamo confrontarci, Natale dopo Natale, con l’idea che non siamo capaci di curare questi bubboni che infettano il tessuto internazionale? Che non v’è rimedio, o almeno non si trova alcuno capace di applicarlo?

È proprio questo, invece, ciò che il Pontefice chiede a tutti noi. Uno scatto di dignità e di orgoglio, perché cominciamo a sentirci, oltre che abitanti di un medesimo e unico pianeta, anche parte di un’unica e dolente umanità, chiamata a compiere un percorso comune che ha per obiettivo la salvezza di tutti e non di pochi. E la strada papa Francesco l’ha indicata per l’ennesima volta nell’Angelus del giorno di Santo Stefano quando, ricordando il primo martire della storia cristiana, ha richiamato «i martiri di ieri e di oggi», e in particolare i tanti cristiani (secondo le stime di Open Doors, circa 300 milioni di persone) oggi perseguitati in decine di Paesi del mondo.

Anche l’anno scorso, alla benedizione Urbi et Orbi, il Papa aveva affrontato questo tema drammatico con le seguenti parole: «Un pensiero particolare va ai nostri fratelli e sorelle che festeggiano la Natività del Signore in contesti difficili, per non dire ostili, specialmente là dove la comunità cristiana è una minoranza, talvolta vulnerabile o non considerata. Il Signore doni a loro e a tutte le minoranze di vivere in pace e di veder riconosciuti i propri diritti, soprattutto la libertà religiosa». I diritti delle minoranze a partire dalla libertà religiosa. Se fossimo davvero attaccati a questo principio, forse oggi avremmo meno crisi aperte. E soprattutto non le vedremmo trascinate da un Natale all’altro, a pesare sulle nostre coscienze.