Spinte illiberali e credo partecipativo. Le democrazie africane al bivio
In linea di principio tutti vorrebbero aiutare l’Africa, particolarmente la macroregione subsahariana, anche se poi, molto spesso, ciò non avviene. Ma andiamo per ordine. In questi anni, un numero non irrilevante di regimi, non potendo fare leva più di tanto sul diritto costituzionale (manomesso in alcuni casi dai presidenti a vita), hanno palesemente manifestato le loro debolezze sistemiche: dall’estrema instabilità politico-istituzionale dei governi alla mala gestione delle economie nazionali.
Questa fenomenologia ha trovato la sua linfa vitale nell’azione corruttiva di potentati stranieri, più o meno occulti, che hanno pesantemente condizionato le scelte politiche all’interno degli Stati sovrani. Una vecchia storia che ha trovato il suo incipit quando venne inaugurato lo Scramble for Africa, ossia la brutale spartizione del continente concertata alla Conferenza di Berlino (1884) fino ai nostri giorni, una stagione segnata pesantemente dalla parcellizzazione degli interessi stranieri legati allo sfruttamento delle commodity.
Tutto questo a partire dall’epoca coloniale, in un contesto socio-politico dove vennero alla ribalta le dispute interetniche che ancora oggi sono alla base dei conflitti all’interno degli Stati divenuti sovrani. Come molti ricorderanno, alla fine del secolo scorso, l’estinguersi della «guerra fredda», incentrata sulla contrapposizione dei blocchi Est-Ovest, accentuò la propagazione, anche nel continente africano, del modello politico liberaldemocratico; anche se poi in non pochi Paesi africani si manifestò, con modalità piuttosto evidenti, l’esatto contrario: il cosiddetto paradigma della democrazia illiberale. Un siffatto sistema si muoveva e in parte si muove anche oggi dal presupposto che il suffragio universale è sì una condizione necessaria, ma per nulla sufficiente rispetto ai valori della democrazia liberale (o pluralista), non coincidendo quest’ultima con la mera indizione delle consultazioni elettorali.
Da queste rapidissime considerazioni emerge come in Africa, soprattutto nella macroregione subsahariana, dove le problematiche del Nation building – espressione utilizzata nelle scienze politiche per indicare il processo di costruzione di un’identità nazionale tramite il potere dello Stato – si sommano pesantemente a quelle dello State building nel senso di edificazione di un sistema statuale che possa rendere effettiva l’azione di governo. Il tema è decisamente scottante perché è evidente che il benessere del continente nel suo complesso non può prescindere dalla partecipazione popolare.
A questo proposito è illuminante il Progetto Africa leadership change (Alc lanciato dall’Ispi nel 2018. Si tratta di uno strumento che ha messo in discussione molti degli stereotipi che ancora affliggono il continente africano, offrendo risposte inaspettate sulle sue dinamiche politiche, e in particolare sui propri leader. Ad esempio, è emerso come i regimi con il maggior numero di elezioni multipartitiche e di alternanze di governo presentino tassi più alti di crescita economica, migliori condizioni di benessere per i propri cittadini, amministrazioni statali più solide e minori livelli di corruzione rispetto ai regimi meno aperti al cambiamento politico.
Una cosa è certa: secondo i dati pubblicati dalla piattaforma digitale Afrobarometer, dell’omonimo Istituto di ricerca panafricano, che conduce indagini sul posizionamento dell’opinione pubblica africana: «La maggior parte degli africani rimangono fedeli alla democrazia».
Nonostante siano stati riscontrati numerosi tentativi per minare le libertà democratiche, la gente continua in gran parte a professare un credo partecipativo. Gli intervistati ritengono che «i militari dovrebbero stare fuori dalla politica, che i partiti politici dovrebbero competere liberamente per il potere, che le elezioni siano comunque uno strumento imperfetto ma essenziale per scegliere i propri leader e che sia giunto il momento per le vecchie oligarchie di uscire di scena». Dunque, la domanda di democrazia c’è e non può essere disattesa.