Opinioni

Roma Felix/6. Le catacombe cristiane: l'umile splendore dei primi testimoni

Stefania Falasca lunedì 16 settembre 2024

Il Buon Pastore nelle catacombe di Marcellino e Pietro sulla Via Casilina

È sfatata ormai da tempo l’idea che le catacombe fossero luoghi di rifugio dei cristiani per sfuggire le persecuzioni imperiali. Come abbiamo visto, i cristiani di Roma si riunivano, fino alla pace costantiniana, in case private, a poco a poco trasformate in aule liturgiche, che divennero con il tempo proprietà della Chiesa e sulle quali sorsero, dal IV secolo in poi, le più antiche chiese e parrocchie di Roma. Durante il periodo apostolico la comunità cristiana di Roma seppelliva i propri morti insieme alle tombe pagane nei cimiteri all’aperto. In seguito con la crescita della comunità – e già a partire dall’inizio del III secolo, quando papa Zefirino (198217) affidò la cura e la manutenzione del cimitero situato tra la via Appia e la via Ardeatina al suo diacono Callisto – la Chiesa di Roma, grazie a facoltosi cittadini romani convertitasi al cristianesimo che misero a disposizione i loro terreni, iniziò a gestire i propri cimiteri. Ne sono stati individuati più di quaranta, di diverse dimensioni, situati lungo le principali vie consolari, fuori le mura di Roma, secondo quanto prescriveva la legge romana riguardo l’ubicazione dei cimiteri. Sono dunque questi cimiteri, che divennero vere e proprie città sotterranee dei morti, le catacombe, termine con il quale all’origine era indicata una località sulla via Appia e che successivamente, per estensione, venne a denominare tutti i cimiteri sotterranei di Roma. Il loro sviluppo abbraccerà un arco di tempo di quasi due secoli e mezzo, dal II fino al V secolo e si calcola che nel sottosuolo romano la lunghezza complessiva della fitta rete di gallerie e cunicoli sepolcrali scavati nel tufo arrivi a 150 chilometri.

Ma qual è il motivo di questa architettura sepolcrale sotterranea? Le ragioni dello sfruttamento verticale delle pareti di tufo risiedono nell’andare incontro all’esigenza di inumare – imitando i sepolcri della Palestina – una comunità di fedeli sempre più numerosa. I cristiani seppellirono, infatti, sempre i propri cari con il metodo dell’inumazione, secondo l’uso derivato dalla tradizione ebraica, che arricchirono poi di nuovi significati, anzitutto la venerazione per le spoglie mortali dei martiri. C’era inoltre una ragione precisa dettata dalle regole imposte dallo Stato, che registrava la presenza dei cimiteri. Una di queste regole era che nel predisporre le sepolture non fossero superati i limiti della proprietà neppure nel sottosuolo. Perciò si cominciava con lo scavare una scala a una profondità limitata, si apriva quindi una galleria principale dalla quale, con il tempo, si facevano partire gallerie laterali. Quando venivano raggiunti i confini della proprietà si procedeva a sfruttare la profondità del terreno. Le gallerie scavate nel tufo divennero così nel tempo sempre più profonde, fino a raggiungere cinque livelli sovrapposti, 18-20 metri di profondità.

La catacomba più vasta con i suoi 15 chilometri di gallerie, uno dei più grandi cimiteri cristiani che siano venuti alla luce, è quella di Domitilla. Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano e moglie di Tito Flavio Clemente a sua volta imparentato con l’imperatore Domiziano, convertitasi al cristianesimo, mise a disposizione della comunità il vasto appezzamento di terreno di sua proprietà sulla via Ardeatina. Si è calcolato che il numero complessivo di tutte le tombe delle catacombe possa aggirarsi tra le 500mila e 750mila. Ma, a fronte di questi numeri, le iscrizioni rinvenute sono poco più di ventimila. Le tombe cristiane ignorano le diciture indicanti cariche ed onori che negli epitaffi pagàni erano abituali, tuttavia, le iscrizioni a noi pervenute restituiscono uno spaccato della vita ordinaria e concreta delle donne e degli uomini delle prime comunità cristiane.

Spesso si trova l’indicazione del mestiere esercitato in vita: sono artigiani, panettieri, fabbri, conciatori di pelli, pittori, marmisti, soldati. In alcuni cimiteri sono state ritrovate camere sepolcrali di proprietà di una corporazione come quella dei panettieri, che aveva un proprio spazio con immagini legate al mestiere, come ad esempio nelle catacombe di Domitilla. Ma anche di notai, maestri, medici, avvocati. Fedeli, insomma, di ogni estrazione sociale e che spesso desideravano avere la propria sepoltura accanto a quelle, venerate, dei martiri. Altre volte le tombe si distinguevano solo per piccoli segni di riconoscimento: l’incisione di un numero, una moneta o una figura fisaste nella calce ancora fresca, sono quelle di cristiani senza nome che come gli altri riposano accanto ai martiri, in attesa della Resurrezione.

Mescolati agli altri uomini, i cristiani conducevano la vita di tutti, sostenuti però, come dirà sant’Agostino nella Città di Dio, da una fede, una speranza, un amore diversi («diversa fide, diversa spe, diverso amore»). Una fede, una speranza e un amore che traspaiono dalle formule contenute nelle iscrizioni sepolcrali. La più frequente ed eloquente di esse è: « In pace», che equivale a una professione della fede come il monogramma di Cristo. «In pace» è perciò il segno più frequente che permette di distinguere con certezza le iscrizioni cristiane da quelle pagane. Chi leggeva le parole in «In Pax» sapeva che vi era sepolto un cristiano. «In pax Dei» o «In pax Christi» o in altri casi anche «Recessit in pax fidelis» (Morì in pace da fedele) o «Vixit in pax fidelis» (Visse in pace da fedele). Raramente si trovano espressioni più articolate, come recita un’iscrizione oggi conservata al Museo Lateranense: «Semper viva in Deo, dulcis anima» (Dolce anima, possa tu vivere per sempre in Dio).

Più spesso invece richieste di preghiere, domande di intercessione che il defunto rivolge ai suoi cari ancora vivi e che testimoniano una fede viva nella comunione dei santi: «Io non merito di essere unito a Dio. Ottienimi con la tua intercessione che Dio perdoni i miei peccati». Nei graffiti lasciati nella galleria che porta alle tombe dei papi martiri sepolti nelle catacombe di San Callisto, spesso dopo la firma è aggiunta l’espressione «indignitus peccator», povero peccatore. Oltre al monogramma di Cristo, altre incisioni rappresentano solo i simboli cristiani: il pesce, l’àncora. Alcuni graffiti sono stati lasciati da sacerdoti. Si riconoscono dalla firma seguita dalla sigla «PRB» (presbiter). Un popolo di peccatori, dai quali il Signore traeva i suoi santi e i suoi martiri.

Così per circa 250 anni, fino a tutto il IV secolo, le catacombe furono soprattutto luoghi di sepoltura, cimiteri dove veniva celebrato il rituale per l’inumazione e si svolgevano commemorazioni liturgiche per i martiri. A partire dal V secolo e fino al VIII secolo, prima che la pericolosità del suburbio romano – a partire dal Sacco di Roma del re dei Visigoti, Alarico nel 410 costringesse ad abbandonare i cimiteri sotterranei e le ossa dei martiri venissero definitivamente trasferite all’interno delle mura della città, nelle Chiese di Roma – le catacombe divennero invece soprattutto mete di pellegrinaggio, saranno cioè esclusivamente frequentate per la venerazione dei martiri e la commemorazione dell’anniversario del loro dies natalis.

Il 12 settembre 1965 Paolo VI si recò alle catacombe di Domitilla e di San Callisto e la sua visita assunse particolare significato svolgendosi alla vigilia della sessione finale del Concilio Vaticano II: «Siamo venuti a bere alle sorgenti, siamo venuti per onorare queste umili tombe gloriose ed averne ammonimento e conforto – disse Paolo VI nell’omelia pronunciata a San Callisto – siamo venuti per rifornirci degli esempi antichi delle virtù cristiane e trarne argomento e vigore... siamo venuti non per rifarci primitivi o per sentirci vecchi, ma per ritornare giovani ed autentici nella professione d’una fede che gli anni non consumano».